Sommario:
1. Introduzione e temi congressuali.
2. Giustizia e tutela dei diritti. - 2.1. La giustizia civile - 2.2. Il processo del lavoro – 2.3. La materia concorsuale – 2.4. Minori e famiglia – 2.5. La giustizia penale – 2.5.1. Il diritto penale sostanziale – 2.5.2. Il diritto penale processuale – 2.5.3. Il carcere – 2.6. Organizzazione e innovazione – 2.7. La dimensione sovranazionale.
3. Giustizia, politica e governo autonomo della magistratura. - 3.1. Giustizia e politica - 3.2. Il governo autonomo della magistratura - 3.3. La giustizia disciplinare - 3.4. La Scuola Superiore della Magistratura. - 3.5. Associazione e correnti della magistratura - 3.6. Riforma della giustizia e riforma della magistratura – 3.6.1. La responsabilità civile dei magistrati – 3.6.2. La separazione delle carriere.
4. Giustizia e mass media. - 4.1. L’informazione sulla giustizia - 4.2. Magistrati e informazione.
5. L’attività recente dell’ANM.
6. Conclusioni.
1. Introduzione e temi congressuali.
Signor Presidente della Repubblica, Autorità, colleghe e colleghi, signore e signori. Il Congresso è occasione al tempo stesso di bilanci e di proposte. Nel 2010 ponemmo al centro della nostra riflessione il rinnovamento, inteso come autoriforma, rinascita etica, innovazione delle leggi e dell’organizzazione. Nei tre anni trascorsi è stato fatto qualche passo in avanti: per limitarmi alle iniziative più significative, ricordo la riforma delle circoscrizioni giudiziarie, i primi interventi – peraltro ad oggi ancora allo stato di disegno di legge – sul processo penale, l’introduzione del processo civile telematico e l’approvazione del codice dell’amministrazione digitale. Purtroppo, la via delle riforme è ancora segnata da troppe timidezze, arresti, ripensamenti, errori: essa è dunque una via tuttora largamente incompiuta e all’elevata laboriosità individuale dei magistrati continua a corrispondere, purtroppo, una scarsa efficienza del sistema.
Quanto ai rapporti tra politica e magistratura, proseguono provocazioni e attacchi verbali, legati a singole vicende giudiziarie, accompagnati da campagne giornalistiche offensive e intimidatorie, in un cliché che evoca un pericoloso clima di scontro che la magistratura rifiuta e al quale oppone l’irrinunciabile necessità del recupero urgente di una condivisa responsabilità istituzionale, nel segno del rispetto per l’indipendenza e l’autonomia della giurisdizione, della salvaguardia del bene comune e del rifiuto di particolarismi, pregiudizi e faziosità.
Il clima dei tempi recenti, oltre ad avere avvelenato la vita del nostro Paese, ha condizionato negativamente le iniziative di riforma legislativa; da un lato ha ostacolato quelle necessarie a restituire al processo qualità ed efficienza, dall’altro ha stimolato proposte, che periodicamente si affacciano con scopo punitivo neanche troppo dissimulato e che mirano strumentalmente a riformare i magistrati piuttosto che a migliorare la giustizia: riduzione delle competenze del CSM, separazione delle carriere, alterazione dell’equilibrio dei rapporti fra pubblico ministero e polizia giudiziaria ed eliminazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, per limitarmi a qualche esempio. Ulteriore prova è offerta dal disegno di legge – approvato dalla sola Camera dei Deputati negli ultimi mesi della XVI legislatura – che mirava a riformare la responsabilità civile dei magistrati, con l’introduzione di un’azione diretta, che non avrebbe avuto eguali nel mondo occidentale.
Non possiamo tacere, del resto, le difficoltà di cui è lastricata la via dell’autoriforma della magistratura: tentativi di improprio condizionamento del nostro governo autonomo, rischi di confusione tra funzione giudiziaria e attività politica, casi di inopportuna esposizione mediatica hanno provocato divisioni e sconcerto nella magistratura e nell’opinione pubblica, con conseguente pericolo di appannamento dell’immagine di imparzialità e del decoro della giurisdizione, offuscata anche da isolati ma gravi episodi di corruzione e collusione di qualche magistrato con settori della criminalità organizzata. L’errore di pochi, purtroppo, può danneggiare irreparabilmente l’impegno di molti.
Alle altre difficoltà si aggiungono gli effetti della crisi economica globale, che ormai da anni condiziona la vita del nostro Paese ed opera purtroppo come concausa di tensioni, che hanno visto la magistratura intervenire su conflitti drammatici insorti fra i diritti fondamentali alla salute, al lavoro, alla sicurezza.
Si impone dunque una riflessione sul ruolo della giurisdizione e sui rapporti fra la magistratura, le altre istituzioni e i cittadini. Con questo XXXI Congresso vogliamo dunque chiederci quale sia oggi la qualità della giustizia nel nostro Paese, quali ostacoli ancora rallentino un’efficace tutela dei diritti, quali riforme delle leggi e dell’organizzazione siano necessarie e possibili; vogliamo chiederci come debbano conformarsi i rapporti fra la magistratura e la politica e come il nostro sistema di governo autonomo debba oggi esercitare la propria funzione di garanzia e di presidio dei principi costituzionali di indipendenza e di autonomia; vogliamo interrogarci sul rapporto tra giustizia e informazione e sul diritto del magistrato di intervenire nel dibattito pubblico e sui suoi limiti.
Si tratta di temi da sempre oggetto di attenzione ma che, nei tempi recenti, si sono imposti con prepotenza, anche a seguito di alcuni episodi che non hanno mancato di suscitare vivaci polemiche.
Di tutto questo vogliamo discutere fra noi, nella ricchezza di un dibattito franco, senza pregiudizi e senza chiusure corporative, aperto al contributo di personalità del mondo dell’avvocatura, della politica, del giornalismo, dell’università. La presente relazione vuole essere un’introduzione ragionata a questa discussione. Essa non è un prodotto solitario ma viene da una riflessione collegiale, condotta, in un confronto vivace di idee, fra i magistrati e all’interno degli organi associativi. La offro alla condivisione, all’approfondimento, alla critica dei colleghi e di quanti altri avranno la pazienza di ascoltarla e di leggerla.
2. Giustizia e tutela dei diritti.
I diritti sono bene prezioso ma fragile. Le disuguaglianze culturali, sociali ed economiche, il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia, la paura e l’odio per il diverso da sé, la rarefazione dell’etica pubblica, l’illegalità diffusa, la criminalità organizzata insinuante e pervasiva, la crisi economica, l’inadeguatezza delle leggi, sono tutti elementi che definiscono un quadro in cui i diritti appaiono sempre meno riconoscibili e sempre più spesso offesi e negati, le responsabilità eluse, gli stessi valori fondamentali in tensione fra loro. Alla giurisdizione, alla sua funzione di ultimo controllo di legalità che ne fonda i caratteri di autonomia e indipendenza, spetta dunque il compito impegnativo di difendere quei diritti, di far valere quelle responsabilità. E’ però una giustizia in affanno, ostacolata dall’inadeguatezza delle leggi e dell’organizzazione, dalla scarsità delle risorse, dal peso gravoso dei carichi e dell’arretrato.
Occorrono dunque appropriati strumenti normativi e organizzativi. Ne sono precondizione il recupero di una condivisa responsabilità istituzionale, il rispetto della giurisdizione, dei principi dello Stato costituzionale di diritto e delle sue regole, l’osservanza di un metodo di confronto leale, che rifiuti pregiudizi e diffidenze.
2.1. La giustizia civile.
E’ la giustizia civile, anzitutto, il luogo in cui i conflitti devono trovare composizione e i diritti devono ricevere tutela. Peraltro, non va taciuto che alle funzioni tradizionali, comprensive non soltanto delle cause contenziose ma anche degli interventi affidati alla volontaria giurisdizione e alla competenza del giudice tutelare, se ne sono aggiunte di nuove, che sottolineano il ruolo penetrante che il giudice civile è chiamato a svolgere a fronte delle crescenti richieste che provengono da una società civile in costante evoluzione. Materie come il fine vita, la fecondazione assistita, la famiglia di fatto, divenute talvolta l’oggetto di casi giudiziari clamorosi e drammatici, hanno visto la magistratura affrontare un impegno difficile e solitario, in presenza di regole incomplete o incoerenti o perfino del tutto in assenza di regole, che la giurisprudenza ha dovuto faticosamente ricavare dai principi costituzionali, con esiti accolti da frequenti polemiche. Se è vero che spetta ai giudici, quando intervengono su situazioni nuove e non regolate, la prima individuazione e tutela dei diritti, è però compito del legislatore inquadrare sistematicamente quelle situazioni e regolare l’esercizio di quei diritti. Chi dunque rivolge ai giudici, anche nel settore civile, l’accusa di esercitare indebite funzioni di supplenza e di sostituirsi al legislatore, dovrebbe prima interrogarsi sull’incapacità di quest’ultimo di disciplinare quelle materie, con regole appropriate.
Il settore civile, purtroppo, continua ad essere afflitto dalla durata eccessiva delle cause e dal grave arretrato, che ha assunto ormai carattere strutturale. Quanto a quest’ultimo, l’entità del carico e la complessità anche qualitativa delle pendenze impongono il ricorso a soluzioni che perseguano l'obiettivo di un deciso abbattimento delle cause più risalenti, secondo un piano rigorosamente programmato, che non trascuri però il rispetto di standard qualitativi elevati e preveda l’impiego di risorse esterne, riservando comunque al personale più qualificato ed esperto le attività per le quali è richiesta una maggiore abilità professionale. Le sezioni stralcio, istituite a tal fine con la legge 22 luglio 1997 n. 276 e alle quali furono destinati giudici onorari aggregati, videro un avvio lento e una misura di smaltimento inferiore alle attese. Col decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. decreto del fare) si è seguita la strada diversa di una limitata aggregazione di giudici ausiliari nelle sezioni ordinarie, piuttosto che la loro concentrazione in sezioni separate. Su tale soluzione va espresso un cauto parere favorevole, purché sia realizzato, nell’attuazione concreta, un regime di controllo stringente, attraverso la previsione di piani dedicati, affidati al Capo dell'Ufficio nell'ambito della previsione dell'art. 37, comma 1, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, con specifica individuazione di obiettivi e di tempi.
L'apporto di giudici ausiliari, se può costituire un sollievo provvisorio per l'amministrazione della giustizia, non deve però risolversi in soluzioni effimere, con l'introduzione di nuove figure temporanee e precarie. Occorre dunque puntare a interventi di carattere strutturale, tali da produrre effetti virtuosi e stabili sulla qualità della giustizia e sulla durata delle cause. E’ necessario infatti considerare la peculiarità del lavoro giurisdizionale e salvaguardare il difficile equilibrio tra la tutela dei diritti e l’efficienza, non già intervenendo con soluzioni tipicamente ed esclusivamente procedurali, ma con una idonea previsione di risorse e di dotazioni, che consentano al giudice civile di avvalersi di una stabile struttura di supporto ed ausilio. A tale riguardo, l'ANM da tempo sollecita la costituzione di un "ufficio del processo" che coadiuvi il magistrato, riservando a quest’ultimo la responsabilità delle decisioni assunte ma sostenendolo nella fase di studio degli atti, nell’organizzazione dei ruoli, nelle attività preparatorie dei provvedimenti e dell'udienza, sull'esempio delle esperienze maturate in altri Paesi.
La previsione del tirocinio formativo istituito anch’esso dal “decreto del fare” costituisce un primo passo, ancorché appena embrionale, in questa direzione. In particolare, sono state recepite, sviluppate e stabilizzate le disposizioni e le prassi già vigenti, sulla base della previsione dell'art. 37 del DL 98/2011. L'esperienza maturata al riguardo presso alcuni uffici giudiziari conferma quindi l'opportunità di procedere in tale direzione, con interventi più decisi di quelli proposti nel decreto.
All’abbattimento dell’arretrato debbono unirsi misure dirette a deflazionare le cause di nuova iscrizione. In tal senso il c.d. decreto del fare ha introdotto nel rito civile alcune utili semplificazioni. Parimenti deve accogliersi con favore l’obiettivo di promuovere soluzioni conciliative che prevengano l’insorgere della causa o ne consentano l’estinzione. A tal fine è però essenziale che, con lo stimolo di incentivi appropriati, l’apporto professionale e qualificato dell’avvocato e l’intervento del giudice, si formi una vera cultura della mediazione, affinché il tentativo di conciliazione non si risolva in una inutile formalità e in un appesantimento del rito.
La strada della semplificazione e della deflazione può essere percorsa con ancor maggiore decisione, con il rafforzamento dei disincentivi processuali. L’ANM ha già indicato, nelle proposte di riforma rese pubbliche lo scorso mese di febbraio, alcune soluzioni, affinché il processo sia realmente impiegato in funzione di accertamento e di tutela di diritti controversi e non quale strumento di ritardo nella soddisfazione dei crediti o, all’opposto, come strumento di sleale aggravamento della condizione del debitore. A tal fine, possono giovare l’introduzione di interessi di tipo moratorio decorrenti dalla domanda giudiziale, l’applicazione di sanzioni processuali in caso di resistenza in cause seriali per le quali vi sia un orientamento consolidato di legittimità, l’ampliamento dei casi di applicazione delle astreintes.
Quanto alle impugnazioni, come già osservato nelle proposte dello scorso febbraio, è necessario procedere alla riduzione dei motivi proponibili e all’abrogazione del cd. “filtro in appello” introdotto dal decreto legge 22 giugno 2012 n. 83, che rischia di determinare un lavoro aggiuntivo nel caso di declaratoria di ammissibilità e, nel caso contrario, una deroga alla regola generale secondo cui il giudizio di cassazione ha per oggetto la sentenza. Rispetto all’applicazione del “filtro”, si ritiene preferibile la decisione delle impugnazioni manifestamente infondate secondo la procedura dell’art. 281 sexies c.p.c., disposizione recentemente estesa all’appello.
Lo Stato, però, non può accontentarsi di un’affermazione virtuale di giustizia, ancorché celere, perché è il cittadino che non può accontentarsi di un semplice riconoscimento astratto. E’ dunque fondamentale guardare alla conclusione del processo, cioè alla fase dell’esecuzione, perché anche una definizione sollecita del giudizio di cognizione non trova corretto completamento se non attraverso un’esecuzione anch’essa sollecita né va dimenticato che un’esecuzione efficace non è soltanto il momento necessario di affermazione della regola giuridica, ma produce anche effetti deflativi, perché una giustizia efficiente anche nella sua esecuzione possiede valore dissuasivo. Agli opportuni correttivi di carattere processuale (ad esempio l’estensione del rito sommario ai giudizi di opposizione contro titoli esecutivi di carattere giudiziario), occorre aggiungere un maggiore impegno pubblico a sostegno del creditore. E’ dunque necessario che lo Stato, sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, agevoli il creditore nella ricerca dei beni del debitore da sottoporre a esecuzione, vanificando ogni tentativo di occultamento. Sarebbe utile, a tal fine, l’istituzione di un ufficio centralizzato di esecuzione che, sotto il controllo del giudice, individui beni e crediti dell’esecutato e proceda al pignoramento informatico delle somme giacenti presso le banche.
Infine, va ricordato il decreto legge 24 gennaio 2012, n.1, che ha istituito le sezioni in materia di impresa, con l’obiettivo di concentrare le cause presso un numero limitato di uffici giudiziari, ridurre i tempi di definizione delle controversie riguardanti le società di dimensioni medie o grandi e aumentare la competitività di tali imprese sul mercato. Benché la riforma sia troppo recente per poterne valutare efficacia e limiti, accanto a taluni aspetti positivi si sono tuttavia già manifestati anche numerosi profili problematici. Al merito di favorire l’uniformità giurisprudenziale non corrisponde, infatti, l’auspicato impatto positivo sulla durata del contenzioso, che sconta la persistente carenza degli organici e quindi l’impossibilità di assegnare i giudici in via esclusiva alle sezioni specializzate. Inoltre, la legge ha unito insieme materie diverse, in assenza però di completezza e coerenza interna del disegno normativo.
2.2. Il processo del lavoro.
La legge 28 giugno 2012, n.92, ha operato una serie di interventi su alcune tematiche di rilievo nell’ambito del diritto del lavoro, quali la c.d. flessibilità, le forme di previdenza, la tutela della genitorialità, nel dichiarato intento di dare impulso all’occupazione, soprattutto giovanile. Fra questi, il maggiore impatto innovativo si è realizzato con le nuove norme in tema di licenziamenti, sia sotto il profilo sostanziale che processuale. Della riforma è auspicabile una profonda revisione e semplificazione, che ne renda più agevole e lineare l’attuazione, sia sotto il profilo processuale che sostanziale.
In effetti, c’è da dubitare dell’effettiva utilità della scelta di istituire un rito dedicato all’impugnativa dei licenziamenti nelle sole ipotesi regolate dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300. La riforma, diretta a creare un canale preferenziale per la rapida definizione di tali controversie, ha finito col creare seri problemi di gestione del ruolo di udienza, a causa degli stretti termini previsti per la fase sommaria, senza riuscire così a garantire la celere conclusione di tali procedimenti.
Inoltre, di grande rilievo è il problema concernente l’assegnazione della fase di opposizione alla decisione assunta a seguito del rito sommario. Ove si ritenga l’incompatibilità del magistrato che ha trattato la fase sommaria, tale soluzione finisce col penalizzare gli uffici con un unico giudice addetto al settore lavoro, obbligando altresì magistrati non specialistici ad occuparsi anche delle cause in materia di lavoro.
A ciò si aggiunge l’anomalia delle modalità di decisione previste per il giudizio di opposizione (sentenza da depositare entro dieci giorni dall’udienza di discussione) secondo uno schema che ricalca piuttosto il rito ordinario civile ed è incomprensibilmente eterogeneo rispetto all’ordinario rito del lavoro.
Accanto a problemi di tipo organizzativo, sono poi sorti problemi di natura sostanziale ed interpretativa, a partire dall’effettiva delimitazione dell’ambito di applicazione del rito, con effetti devastanti sulla certezza del diritto, tanto più gravi quanto più rilevanti sono gli interessi coinvolti. Senza voler affrontare in questa sede gli aspetti di natura più squisitamente politica, ci si limita ad evidenziare come la proliferazione delle fattispecie contemplate dal riformato art. 18 (art. 1, comma 42, della legge n. 92/2012), peraltro indicate attraverso il riferimento a formule generali, rischia di dare spazio al “soggettivismo” nella graduazione delle tutele assicurate alle diverse ipotesi.
In conclusione, occorre sottolineare come la delicata materia del lavoro conosca oggi profonde trasformazioni e tensioni fra opposti modelli: quelli ispirati alle regole della flessibilità o, al contrario, alle esigenze di stabilità del posto di lavoro. Sono tensioni acuite dall’attuale condizione di crisi economica. E’ dunque auspicabile che le scelte legislative in tema di mercato del lavoro promuovano un aumento della mobilità non imposta, ma frutto di un aumento delle opportunità di occupazione. Delle attuali difficoltà e della difesa dei diritti fondamentali e inderogabili non potrà non farsi carico anche la normativa in tema di contratti e di tutela processuale.
2.3. La materia concorsuale.
I recenti interventi di riforma della legge fallimentare rispondono all’esigenza di favorire il superamento della crisi d’impresa e definiscono un diverso ruolo del giudice delegato, il quale deve oggi cimentarsi con nuovi strumenti di soluzione concordata delle crisi, diretti ad agevolare la prosecuzione o il riavvio dell’attività imprenditoriale.
Purtroppo, la recente introduzione di un concordato slegato dal piano (c.d. concordato prenotativo), diretto ad anticipare gli effetti protettivi nella delicata fase di avvio delle trattative con il ceto creditorio, ha visto, in realtà, accrescere l’utilizzo improprio di tale istituto, spesso impiegato a danno dei creditori.
Di tale evenienza l’Associazione Nazionale Magistrati aveva già dato conto nel parere reso in sede istituzionale sul c.d. decreto sviluppo. Il legislatore, con il recente “decreto del fare”, è intervenuto per arginare le crescenti situazioni di abuso che si erano verificate a danno del ceto creditorio. L’istituto, in realtà, andrebbe riformato e inserito sistematicamente nel quadro degli interventi di riforma volti a facilitare la ripresa dell’attività economica, al fine di evitare manovre puramente dilatorie e speculative, tali da ritardare oltre misura la dichiarazione di fallimento.
Ancora, va rilevato il difetto di disposizioni normative in materia di gruppi di imprese. La prassi dei tribunali fallimentari ha dimostrato che per la corretta gestione delle procedure relative a tali gruppi sarebbe opportuno assicurare il coordinamento tra le diverse procedure. In particolare, per quelle relative a gruppi imprenditoriali di imponenti dimensioni, sarebbe utile prevedere forme di cooperazione tra gli organi della procedura, nonché la possibilità di nominare anche più giudici delegati, i quali congiuntamente assumano il compito di stabilire regole di coordinamento e di assicurare la vigilanza e il controllo sulle procedure riguardanti tutte le società del gruppo.
Infine, allo scopo di garantire l’efficienza nella gestione delle procedure concorsuali, potrebbe essere previsto normativamente - in presenza di determinati presupposti - lo scambio di informazioni e di atti tra tribunali e organi delle procedure, utile sia a livello nazionale che nel caso di insolvenze transfrontaliere (c.d. Court to Court communication).
2.4. Minori e famiglia.
L’esigenza di assicurare una forte tutela ai diritti dei minori e degli adulti coinvolti nei procedimenti minorili impone che sia salvaguardata la specializzazione della giustizia minorile e familiare, anche alla luce delle direttive sovranazionali (si vedano da ultimo le linee guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 17 novembre 2010 per una “giustizia a misura di minore”), garantendo l’esclusività delle funzioni dell’organo giudicante e la composizione multiprofessionale nelle controversie che coinvolgono soggetti minori di età. Alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 va il merito di avere unificato lo stato di figlio. Tuttavia, le incertezze interpretative seguite alla sua approvazione, le difformità insorte nelle prassi applicative delle regole processuali, i problemi legati all’esecuzione dei provvedimenti di allontanamento dei minori dalla famiglia, che incidono in modo profondo nei vissuti dei bambini e degli adolescenti e sono stati oggetto di forte attenzione anche da parte dei mezzi di informazione, sono solo alcuni degli aspetti critici che attengono alle procedure di natura civile. A questi si aggiungono le problematiche che riguardano le competenze penali e l’organizzazione degli uffici.
Si rendono quindi necessari i seguenti interventi: 1) riordino dei procedimenti civili minorili e familiari e disciplina dell’esecuzione dei relativi provvedimenti; 2) disciplina della mediazione penale e familiare; 3) riforma del sistema penale minorile che preveda, tra l’altro, nuove e ulteriori tipologie di pene; 4) introduzione di un ordinamento penitenziario per i minorenni e i giovani adulti, secondo le indicazioni pervenute dalla Corte Costituzionale; 5) revisione dei procedimenti amministrativi ex art. 25 ss. R.D.L. n. 1404/34, con la tipizzazione delle condotte qualificate dalla legge come “irregolarità della condotta o del carattere” e l’introduzione della garanzia del diritto alla difesa; 6) revisione degli organici dei Tribunali per i Minorenni, previo approfondito esame delle modifiche operate nella competenza dei Tribunali da alcuni recenti interventi legislativi e degli effetti della riforma della geografia giudiziaria.
Da ultimo, non si può non ricordare la situazione dei minori – come degli altri soggetti deboli – coinvolti nei tragici eventi legati al fenomeno dell’immigrazione sulle coste dell’Italia meridionale. E’ indispensabile, in questi casi, assicurare la qualità dell’accoglienza e delle strutture, tutelare il diritto all’unità familiare, preparare percorsi di inclusione sociale al raggiungimento della maggiore età, superando le rigidità che connotano l’attuale formulazione dell'art. 32 del Decreto Legislativo 286/1998, e attivare un sistema integrato che preveda l’elaborazione di protocolli comuni fra tutte le Istituzioni coinvolte: Procure della Repubblica, Tribunali per i Minorenni, Giudice tutelare e Prefetture. Voglio in questa sede ricordare l’impegno svolto in questa delicata materia da tanti colleghi, impegno al quale non sempre si presta l’attenzione che esso merita.
2.5. La giustizia penale.
Profonde riforme si impongono anche nel campo penale. In tale settore, purtroppo, il dibattito si è concentrato su pochi processi celebrati nei confronti di alcuni personaggi politici, con corredo di polemiche, propaganda e denigrazioni varie nei confronti della magistratura, che hanno avvelenato il clima dei rapporti istituzionali, alterato la valutazione e la percezione dello stato della giustizia penale, distolto dai problemi reali, ostacolato e condizionato le riforme. Non sono mancate le leggi, sono mancate piuttosto, con poche fortunate eccezioni, l’attenzione alle esigenze generali, la capacità di intervenire sui difetti strutturali del sistema e di inquadrare le riforme di settore in una visione d’insieme, equilibrata e coerente, rispettosa dei principi dell’ordinamento interno e internazionale. Si è approfittato delle necessità di riforma per piegarle a interessi di parte o a scopi di propaganda politica. Ne sono venute, negli anni, leggi ad personam, una riforma della prescrizione incongrua e dannosa, pacchetti sicurezza e riforme dell’esecuzione penale dettati da una severità generica e da una concezione simbolica del diritto penale.
2.5.1. Il diritto penale sostanziale.
Di tale concezione simbolica offre un esempio l’approccio inutilmente repressivo che continua a ispirare, pur dopo gli interventi della Corte costituzionale e i richiami del Consiglio d’Europa, la legislazione penale in materia di immigrazione. Quanto tale approccio sia inutile e sbagliato ne hanno offerto, da ultimo, tragica dimostrazione le stragi consumatesi nelle scorse settimane nel mare di Scicli e di Lampedusa. Non serve una demagogica retorica della sicurezza ma piuttosto una gestione del fenomeno che punti su efficaci strumenti amministrativi piuttosto che su quelli penali. Non serve indugiare in vane polemiche sul reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato, reato palesemente inutile e dannoso e la cui abrogazione non sarebbe certo una concessione all’ingresso incontrollato nei nostri confini. Esso è inutile, perché una sanzione pecuniaria non è in grado di esercitare alcun effetto dissuasivo; dannoso, perché ingolfa gli uffici giudiziari, costringendo le Procure della Repubblica a iscrivere nel registro delle notizie di reato migliaia di immigrati; dannoso, ancora, perché intralcia le indagini contro gli scafisti e gli altri responsabili del traffico di clandestini, trasformando questi ultimi da testimoni in coimputati.
E’ su altri fronti, invece, che si avverte la necessità di interventi più solleciti e più determinati. L’illegalità diffusa nei settori della pubblica amministrazione, dell’impresa, della finanza, una criminalità organizzata sempre attiva nei suoi tradizionali ambiti criminali ed oggi ancor più infiltrata nel mondo dell’economia, il ripetersi di gravi fatti di violenza, rendono ineludibile procedere all’adeguamento e alla revisione delle fattispecie penali e del regime sanzionatorio e assicurare l’efficacia dell’azione investigativa e la celerità dei processi.
Negli anni non è mancato qualche buon intervento. Ricordo la redazione del codice antimafia, l’introduzione del reato di stalking, il rafforzamento del contrasto al fenomeno della violenza sessuale e alla violenza di genere, i disegni di legge in corso di approvazione in tema di messa alla prova, processo contumaciale, misure alternative alla detenzione.
Alcune di queste riforme richiedono però urgenti correttivi: quanto alla materia antimafia, ad esempio, la disciplina delle misure patrimoniali di prevenzione deve essere resa più efficace e puntare con maggiore decisione all’obiettivo del recupero dei patrimoni mafiosi al circuito dell’economia legale; vanno inoltre rafforzati gli strumenti di gestione dei beni sequestrati e confiscati.
La legislazione in materia di tutela dei soggetti deboli deve essere meglio inquadrata in una visione sistematica d’insieme.
Si attende ancora una radicale riforma dell’attuale disciplina della prescrizione, frutto della disastrosa novella del 2005.
Non si è posto rimedio alla depenalizzazione di fatto delle ipotesi di falsità nella contabilità e nel bilancio, essenziali per assicurare un controllo effettivo, anche in sede penale, della gestione finanziaria delle società commerciali, nei cui meccanismi rischiano di allignare riciclaggio e fondi neri; fenomeni, questi ultimi, strettamente legati alla pratica della corruzione, mezzo di infiltrazione della criminalità di ogni stampo nelle strutture dello Stato e dell’economia.
Complementare ad essi è l’autoriciclaggio, che ancora attende in Italia un’adeguata sanzione penale, in linea con gli standard internazionali, con la risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2011 sulla criminalità organizzata e con le tendenze più recenti ormai seguite anche nei Paesi di civil law.
Quanto alla nuova disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione, la legge 6 novembre 2012, n. 190, approvata fra molte polemiche, ha dato risposta solo parziale alle esigenze di riforma: più convincente nella prima parte, dedicata alle misure di contrasto preventivo in corso di concreta attuazione, rivela, nelle previsioni di carattere penale, la sua natura di faticoso compromesso; anche alla luce dei profili critici evidenziati dalle sue prime applicazioni e nella persistenza di gravi e diffusi fenomeni di corruzione, occorre intervenire con opportuni correttivi sulle fattispecie e sulle relative sanzioni.
Ancor più degli interventi di settore, però, si impongono riforme di sistema che, lasciando intatti istituti di parte generale ormai assistiti da una giurisprudenza consolidata, incidano anzitutto sulla disciplina sanzionatoria: a tale riguardo occorre procedere alla revisione delle pene, in una visione armonica che tenga conto della natura del bene protetto e dell’attualità dei fenomeni criminali, valorizzi le sanzioni interdittive e pecuniarie, riservi quelle detentive ai casi di necessità effettiva, rifiuti un approccio di generica severità ispirato da esigenze di propaganda, poiché la sicurezza pubblica è assai meglio garantita dall’efficienza e dall’equilibrio del sistema piuttosto che da una severità di facciata. Occorre superare la visione, alquanto rozza e costituzionalmente errata, del processo penale come strumento fondato in via pressoché esclusiva sulla repressione carceraria. Va rafforzata l’idea di una “giustizia riparativa”, che coniughi lo scopo deflativo col recupero della centralità della vittima, soprattutto nei reati senza violenza: a tal fine occorre valorizzare l’istituto dell’estinzione del reato per effetto del risarcimento del danno, oltre a quelli dell’irrilevanza penale e della particolare tenuità del fatto.
2.5.2. Il diritto penale processuale.
Quanto al processo penale, il rispetto dei tempi ragionevoli di durata va assicurato non già imponendo per legge termini incongrui a uno strumento inefficiente, ma procedendo a una semplificazione più ampia e coraggiosa delle regole.
Occorre anzitutto abbandonare la strada di certi disegni deleteri di riforma, estranei al tema della qualità e dell’efficienza, che hanno a lungo occupato il dibattito politico e che sono fortunatamente falliti: il progetto di fare del pubblico ministero una sorta di avvocato della polizia, l’ampliamento irragionevole dei casi di inutilizzabilità degli atti, l’introduzione del c.d. “processo breve”, una riforma della disciplina delle intercettazioni che, di fatto, ne avrebbe reso pressoché impossibile l’impiego. Riforme, cioè, che, anziché porre rimedio all’inefficienza della giustizia penale, avrebbero depresso ulteriormente le indagini e il processo, nel segno di una malcelata sfiducia nei riguardi della giurisdizione e della magistratura.
Serve dunque, nel campo processuale, una decisa inversione di tendenza, per la realizzazione di una giustizia penale celere e attenta alle garanzie effettive piuttosto che ai formalismi. La strada segnata dalle riforme attualmente in discussione in tema di messa alla prova e processo in contumacia va percorsa con ancor maggiore decisione. Occorre, fra l’altro, razionalizzare il sistema delle impugnazioni, conservandone la funzione di garanzia ma eliminando gli abusi dilatori, snellire il sistema delle notifiche, temperare il principio dell’immutabilità del giudice, introdurre forme anticipate di definizione delle questioni di competenza, onde prevenire l’inutile ripetizione dei giudizi.
Quanto alla materia delle intercettazioni, occorre intervenire con riforme che da un lato non pregiudichino uno strumento di indagine e di prova irrinunciabile con l’imposizione di condizioni, limiti e formalismi inutili e dannosi, dall’altro garantiscano il diritto alla riservatezza, impedendo la divulgazione di conversazioni e dati processualmente irrilevanti, in un ragionevole equilibrio fra tutela della privacy, diritto all’informazione ed esigenze di indagine e di prova. Quanto ai profili organizzativi e alle misure di sicurezza fisica e informatica, va osservato che, se è comprensibile l’esigenza che anima il provvedimento adottato dal Garante per la protezione dei dati personali lo scorso 18 luglio 2013, tuttavia la strada da seguire appare piuttosto quella del confronto e delle soluzioni condivise con gli Uffici giudiziari e il Ministero della Giustizia, senza peraltro dimenticare che nessuna cautela tecnica, secondo la legislazione vigente, potrà impedire la diffusione del contenuto delle intercettazioni, ancorché processualmente irrilevanti, dopo il loro deposito a conclusione delle indagini o, eventualmente, in occasione della fase incidentale di riesame.
2.5.3. Il carcere.
Nel settore penale l’emergenza più grave, morale ancor prima che giudiziaria, è costituita dal sovraffollamento delle carceri e dalla qualità del trattamento: è da anni un’emergenza nazionale e democratica, causa principale delle condizioni insostenibili e incivili dei detenuti. Secondo i dati recentemente riferiti dal Ministro della Giustizia, al 14 ottobre 2013 erano presenti nei 206 istituti carcerari italiani 64.564 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 47.599 unità. Di questi, 24.744 sono indagati o imputati in custodia cautelare, dei quali la metà soltanto (12.348) in attesa di primo giudizio. I detenuti per art. 73 della legge droga sono 19.119 e i detenuti con pena residua inferiore a 3 anni ben 23.022. A tale situazione, che rivela l’esistenza di mali strutturali, solo in piccola parte è riuscita a porre rimedio la legislazione c.d. svuota-carceri degli anni 2010 e 2011, la quale, in controtendenza con la riforma del 2006, ha comunque affermato il principio tendenziale dell’espiazione in luoghi diversi dal carcere delle pene o dei residui di pena brevi.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Torreggiani ed altri contro Italia, in data 8 gennaio 2013 ha pronunciato sentenza di condanna del nostro Paese, accertando la violazione dell’art. 3 CEDU e, contestualmente, ha posto in luce 1) l’esistenza di problemi strutturali, 2) il carattere sistemico delle violazioni dell’art. 3 CEDU, 3) l’obbligo di porvi rimedio nel termine di un anno, invitando lo Stato a ricorrere il più ampiamente possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la politica penale verso un minor ricorso alla detenzione.
L’ANM è dunque consapevole della necessità di interventi urgenti che assicurino la civiltà del trattamento penitenziario e realizzino la finalità rieducativa della pena. Spetterà al Parlamento valutare l’adozione di provvedimenti di clemenza, i quali dovranno però essere assistiti da un forte impegno di responsabilità, per l’introduzione di ampi rimedi strutturali, secondo le linee segnate nel messaggio che il Capo dello Stato ha rivolto alle Camere; rimedi da lungo tempo invocati e solo in parte oggetto di disegni ancora non tradotti in legge.
In mancanza di tali misure, gli strumenti d’emergenza dell’amnistia e dell’indulto si ridurrebbero a soluzioni effimere e provvisorie. Di ciò, purtroppo, si ebbe già esperienza in occasione dell’indulto del 2006, un provvedimento peraltro non collegato all’amnistia (il che impose la celebrazione di molti processi destinati a concludersi con l’irrogazione di pene già estinte) e, soprattutto, non accompagnato da interventi e da riforme che fossero in grado di impedire il rinnovarsi del sovraffollamento. Indulto e amnistia, inoltre, dovrebbero prevedere appropriate esclusioni oggettive e dovrebbero legarsi a misure e condizioni che tengano in debito conto le ragioni della vittima del reato e siano dirette – nei casi appropriati – a favorire azioni riparatorie e il reinserimento sociale del reo.
Quanto alle riforme strutturali, esse dovrebbero comunque trascendere il fine immediato di porre rimedio all’attuale condizione delle carceri e, muovendo dalle necessità più urgenti, mirare finalmente a un complessivo adeguamento dello strumento penale e sanzionatorio. Occorre dunque procedere a un’ampia depenalizzazione e a una sostanziale decarcerizzazione, in parallelo rispetto alla realizzazione di nuove strutture e alla riqualificazione di quelle esistenti, con l’obiettivo di migliorare la qualità del sistema penitenziario italiano, allo scopo di rendere effettivi i principi costituzionali della funzione rieducativa della pena e dell’umanità del trattamento. Alla diversificazione delle sanzioni, alla valorizzazione dell’istituto della messa alla prova, al rafforzamento degli istituti di “giustizia riparativa”, ai quali sopra si è già accennato, deve aggiungersi una decisa inversione di tendenza rispetto alla linea finora seguita e che ha ispirato la legge 5 dicembre 2005, n. 251, superando rigidi automatismi (come in parte operato dal decreto legge 1 luglio 2013, n. 78), anche attingendo alle proposte elaborate dalla Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, istituita con delibera del CSM del 4 maggio 2011.
Nella fase esecutiva, occorre valorizzare la detenzione domiciliare e le altre misure alternative, quale occasione per ridurre la recidiva e accrescere la sicurezza dei cittadini, attraverso un percorso di responsabilizzazione che si realizzi anche mediante l’assunzione di impegni in favore della collettività.
Quanto invece alle misure cautelari, va ampliato il ricorso, anche cumulativo, a quelle interdittive – delle quali va estesa la durata – e alle cautele di natura patrimoniale (sequestro per equivalente, anticipazione del sequestro conservativo), onde favorire il ricorso alle misure custodiali per i soli casi più gravi.
Infine, va osservato che quasi un terzo dell’intera popolazione carceraria è ristretta per reati in materia di stupefacenti. Tale disciplina va dunque sottoposta a un’attenta riflessione e a interventi che attenuino la severità delle pene previste per i fatti di piccolo spaccio e favoriscano l’accesso all’affidamento terapeutico.
2.6. Organizzazione e innovazione.
In parallelo con la riforma delle leggi, occorre procedere al miglioramento dell’organizzazione. Intervento da lungo tempo atteso è quello che ha portato, finalmente, alla revisione delle circoscrizioni giudiziarie. Perché tale riforma dia i risultati sperati di razionalizzazione del sistema, servono però una corretta distribuzione delle risorse attraverso la previsione di piante organiche adeguate alle mutate esigenze, interventi logistici che allevino i disagi che deriveranno a operatori e utenti, un’adeguata innovazione tecnologica che favorisca l’accesso in rete da parte dei cittadini ai sistemi di giustizia, opportuni correttivi alla nuova geografia suggeriti dall’esperienza della sua concreta attuazione.
Sul piano dell’organizzazione, il processo civile telematico, la cui piena operatività è prevista per il 2014, impone urgenti investimenti, onde completare gli applicativi, dotare gli uffici di strumenti informatici maneggevoli e di facile uso, formare e riqualificare il personale, assicurare un’assistenza adeguata, creare una stretta sinergia con gli Ordini degli Avvocati e rafforzare i Coordinamenti interdistrettuali per i sistemi informativi automatizzati (CISIA).
L’informatizzazione va estesa con urgenza anche al settore penale, perché sia data completa attuazione anche in questo campo al codice dell’amministrazione digitale, attraverso un progetto organico di processo penale telematico. Il nuovo registro penale SICP, da diffondere a livello nazionale, dovrebbe costituire la dorsale del sistema penale digitale e dovrebbero estendersi in maniera omogenea in tutti gli uffici giudiziari il nuovo sistema di notifiche penali via PEC e un sistema unico di gestione documentale, che consenta la formazione di fascicoli processuali interamente digitalizzati, con conseguente recupero di risorse, in termini di energie lavorative e materiali.
Gli investimenti vanno completati con la costituzione di un vero ufficio del processo, secondo quanto ho già anticipato in materia di buona organizzazione del settore civile nel precedente punto 2.1.
Occorre inoltre procedere al riordino della magistratura onoraria, della quale da tempo si attende una disciplina sottratta alla logica delle proroghe e della precarietà, con un più rigoroso sistema di selezione, un’approfondita valutazione delle piante organiche, l’individuazione tassativa delle competenze e delle modalità di supplenza, l’introduzione di opportune forme di previdenza, la regolamentazione della temporaneità degli incarichi, con proroghe collegate a valutazioni di professionalità e rendimento, che assicurino un’adeguata programmazione.
E’ urgente, per la stessa funzionalità del sistema, rafforzare gli organici del personale amministrativo, già interessato da un'inarrestabile emorragia e procedere alla riqualificazione di quello esistente. L’apporto di nuove forze che dovrebbe venire dalla mobilità in favore del comparto Giustizia, prevista dal decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, può costituire uno strumento utile, una volta risolte le difficoltà legate alla formazione specifica di tale personale e al suo inserimento armonico nei ruoli.
Nessuna riforma legislativa, nessun nuovo investimento, tuttavia, potrà mai supplire alla necessità di una buona organizzazione interna degli uffici giudiziari. E’ un compito che grava anzitutto sui nostri dirigenti, ai quali si richiede, oggi più che in passato, non soltanto di essere ottimi magistrati ma anche eccellenti organizzatori, nell’impiego delle risorse, nella predisposizione dei servizi, nella vigilanza sui flussi e sulla qualità del rendimento. A tal fine è fondamentale la diffusione sull’intero territorio, con gli opportuni adeguamenti alle specificità locali, di quelle buone prassi, già adottate e sperimentate con ottimi risultati in singoli uffici giudiziari. E’, questo, un impegno affidato alla nostra responsabilità: non solo a quella dei dirigenti ma anche a quella di tutti i magistrati, chiamati alla condivisione di un impegno che deve riguardare l’organizzazione del lavoro non meno dello stretto esercizio della funzione giurisdizionale.
Va ricordato come la buona organizzazione degli uffici si fondi anche sulla diffusione di una moderna cultura tabellare, quale concreta realizzazione del principio del giudice naturale, e come, negli uffici di Procura, occorra individuare un punto di corretto equilibrio fra poteri di indirizzo e controllo del dirigente e rispetto dell'autonomia e della dignità di ciascun magistrato.
Infine, va riformata la materia delle spese processuali e delle sanzioni pecuniarie, la cui percentuale di recupero è particolarmente bassa. Serve, a tale riguardo, incrementare, favorire e snellire l’attività di recupero dei crediti e destinare il ricavo direttamente al Ministero della Giustizia. Quanto ai beni in sequestro e oggetto di confisca, è necessario rendere fruttuosa la loro gestione, specialmente con riguardo ai beni devoluti all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.
2.7. La dimensione sovranazionale.
Il pluralismo verticale e sovranazionale delle fonti normative, in quello che, con fortunata espressione, è stato definito “costituzionalismo multilivello”, e il sempre più ampio diffondersi di convenzioni dedicate a materie di grande impatto, promosse da organizzazioni internazionali e spesso assistite da sanzioni inflitte ai Paesi inadempienti (si pensi ai settori dell’antiriciclaggio e dell’antiterrorismo), sono realtà che ormai da anni si sono imposte agli Stati nazionali e che richiedono un nuovo approccio alla legislazione nazionale e all’applicazione delle sue regole.
Non si vuole, in questa sede, affrontare il tema critico della c.d. democrazia sovranazionale, ma piuttosto rilevare come il nostro Paese non sia stato sempre attento e sollecito nel dare attuazione agli obblighi derivanti dalle fonti sovranazionali. Basti pensare ai richiami pervenuti dalla Corte di giustizia di Strasburgo per violazione della CEDU, in tema di ragionevole durata del processo e di trattamento carcerario, e ai rilievi critici mossi all’Italia in materia di legislazione anticorruzione nel rapporto del GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione, istituito nell’ambito del Consiglio d’Europa) del 23 marzo 2012, rilievi che conservano in gran parte valore, pur dopo l’approvazione della legge 6 novembre 2012, n.190 (si pensi alla disciplina della prescrizione e della corruzione nel settore privato).
Ancora, in molti casi con largo ritardo l’Italia ha adeguato la propria normativa interna agli accordi internazionali che pure aveva sottoscritto (ancora in materia di corruzione, la convenzione di Merida, adottata dall’Assemblea dell’ONU il 31 ottobre 2003, è stata ratificata dall’Italia con la legge 3 agosto 2009, n. 116, mentre la convenzione di Strasburgo, del 27 gennaio 1999, è stata ratificata con più di tredici anni di ritardo, con la legge 28 giugno 2012, n. 110).
A ciò si aggiungono le incoerenze nell’adeguamento della legislazione interna alle regole del diritto comunitario, con le conseguenti difficoltà e incertezze applicative e interpretative. Neanche è mancato il tentativo, nel dibattito pubblico, di piegare gli argomenti degli organi sovranazionali alle esigenze della propaganda interna: ne è chiaro esempio quanto recentemente accaduto in tema di responsabilità civile dello Stato per violazione manifesta del diritto comunitario, nei commenti seguiti alle sentenze della Corte del Lussemburgo.
In conclusione, è auspicabile che al tema della normativa internazionale e sovranazionale sia dedicata maggiore e più sollecita attenzione, a garanzia del ruolo del nostro Paese, della certezza del diritto e della qualità della giustizia.
3. Giustizia, politica e governo autonomo della magistratura.
Abbiamo scelto di dedicare una sessione di questo Congresso al rapporto fra giustizia e politica nonché alla funzione del governo autonomo, quale strumento che, nell’equilibrio tra i poteri dello Stato, realizza e garantisce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, secondo la previsione dell’articolo 104 della Costituzione. E’ un tema che assume un rilievo straordinario, in quanto segna uno dei momenti essenziali di definizione dei meccanismi del sistema istituzionale. Ragioni contingenti, legate all’attualità politica e giudiziaria, hanno posto il tema al centro del dibattito pubblico ma questo ha finito col concentrarsi sulle situazioni specifiche che lo avevano promosso, trasformandosi in propaganda polemica, scatenando attacchi scomposti, ostacolando così una riflessione più attenta e più oggettiva.
3.1. Giustizia e politica.
Il rapporto fra giustizia e politica ha un contenuto complesso, che va anzitutto individuato nella correlazione e nella dinamica tra la funzione politico-amministrativa e quella giudiziaria. A tale riguardo, accusa spesso rivolta alla magistratura è quella di esercitare forme improprie di “supplenza” e di esondare dagli argini della giurisdizione per invadere ambiti di competenza esclusiva dell’Autorità politico-amministrativa. Ciò varrebbe, secondo i critici, sia per il diritto civile, come già sopra si è ricordato con riferimento a materie che coinvolgono anche delicati aspetti bioetici, sia per lo strumento penale, che, anziché rimedio estremo, sarebbe utilizzato quale mezzo improprio di regolazione dei rapporti e dei conflitti sociali e di intervento nei settori della pubblica amministrazione e dell’economia. Come già si è avuto modo di osservare, tali accuse, in sé non nuove, nascondono troppo spesso l’inerzia del legislatore e l’incapacità della pubblica amministrazione e del mondo dell’impresa, dell’economia e della finanza di assicurare un’efficace azione di prevenzione: prevenzione dai rischi di infiltrazione, in quei settori, del germe della corruzione e della criminalità organizzata, ma anche prevenzione sul fronte della tutela dell’ambiente e della sicurezza sul posto di lavoro, come rivelato da più di un’inchiesta giudiziaria. In tale situazione, la magistratura non potrà che continuare a svolgere la sua funzione di tutela dei diritti, di ultima sede di composizione dei conflitti e di rimedio estremo alla legalità violata, intervenendo là dove altri hanno fallito, con gli strumenti che le sono propri; che sono però strumenti rigidi e che operano spesso su situazioni già compromesse.
Altra accusa ricorrente è quella di esercizio strumentale della giurisdizione, che sarebbe sistematicamente abusata quale mezzo di mirata azione politica. Tuttavia, l’interesse collegato a specifiche vicende processuali, l’assenza di argomenti oggettivi, unita alla pretesa di valutare la correttezza delle decisioni con il metro della loro rispondenza a convenienze di natura politica, il tentativo di condizionare e delegittimare l’esercizio della funzione giudiziaria attraverso manifestazioni pubbliche e orchestrate campagne giornalistiche, ne rivelano la strumentalità. La magistratura non vuole e non deve essere coinvolta in polemiche di tal fatta, che vanno definitivamente archiviate. La rappresentazione della giustizia come funzione piegata a scopi politici, l’attacco scomposto alle sentenze, delle quali si impone il rispetto, e l’attribuzione alla magistratura di pregiudizi di carattere ideologico costituiscono non soltanto un oltraggio rivolto all’ordine giudiziario ma anche un grave pericolo per il sistema democratico, la cui credibilità viene messa a grave rischio agli occhi dell’intero corpo sociale. Va dunque ribadito che la magistratura e l’ANM non sposano ideologie politiche e non sono a servizio di alcuna parte politica.
D’altra parte, la forte esposizione della magistratura, dovuta alla concomitanza di indagini e di processi penali e civili che hanno acquistato particolare evidenza pubblica, deve imporre a chi esercita la funzione giudiziaria una forte cautela nella salvaguardia dell’immagine di imparzialità. La questione assume una speciale delicatezza con riguardo al fenomeno della partecipazione dei magistrati all’attività politica, questione non nuova in sé ma oggi fonte di maggiore attenzione e di più accese polemiche rispetto al passato. Al riguardo l’Associazione, in linea con quanto affermato sul punto dalla Corte costituzionale, ha in più occasioni espresso la necessità di una normativa rigorosa, che, con maggiore decisione rispetto a quella attuale, regoli la possibilità di accesso dei magistrati alle cariche elettive e all’amministrazione degli enti locali e disciplini il rientro in ruolo dei magistrati alla scadenza del mandato o della carica, in modo da evitare ogni rischio di appannamento della funzione giudiziaria. Non si tratta di demonizzare o di limitare oltre ragione la partecipazione dei magistrati alla politica, bensì di evitare i rischi di danni all’immagine e di interferenza che possono derivare da un transito pressoché illimitato, soprattutto ove ciò si accompagni alla particolare esposizione mediatica del magistrato e alla notorietà dei procedimenti trattati, affinché le due funzioni non ne risultino e non appaiano reciprocamente condizionate.
3.2. Il governo autonomo della magistratura.
In realtà, l’aspetto centrale e più rilevante in tema di rapporti fra giustizia e politica riguarda gli strumenti e le forme di tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità della giurisdizione e dunque della magistratura. E’ una tutela rimessa anzitutto agli organi del nostro governo autonomo ma affidata, a ben vedere, a una disciplina complessa: principi costituzionali, regole ordinamentali, casi e forme della responsabilità disciplinare e civile, perfino norme processuali su competenza e ricusazione, su ruolo e poteri del pubblico ministero, sono tutte disposizioni che definiscono il tema dell’indipendenza e, non a caso, costituiscono l’oggetto di ripetuti tentativi di riforma.
Dunque, quanto più forti sono questi tentativi, tanto più determinata deve essere la difesa del ruolo del CSM, quale garante della nostra autonomia, contro ogni disegno di sottrargli competenze e autorevolezza e di ridurlo a mero strumento di amministrazione dei magistrati.
Sono proprio la centralità del Consiglio e la sua alta funzione di garanzia, che la Costituzione ha riconosciuto al punto di affidarne la Presidenza al Capo dello Stato, a richiamare la magistratura alle proprie responsabilità. Già in occasione del XXX Congresso ci siamo soffermati su alcuni dei difetti che il concreto funzionamento del sistema ha conosciuto, di indicarne le cause e di suggerirne i rimedi. Purtroppo, dopo tre anni riemerge tra i magistrati la sfiducia nella correttezza e imparzialità del sistema di autogoverno: nomine e conferme dei direttivi e dei semidirettivi, valutazioni di professionalità, incarichi fuori ruolo, destinazioni agli uffici di legittimità, sono stati accusati periodicamente di scarsa trasparenza e di sensibilità a logiche lottizzatorie.
Vanno respinte le critiche generiche maoccorre anche riconoscere, con franchezza, i limiti che l’esperienza degli ultimi anni ha messo in luce. L’autogoverno responsabile della magistratura è un bene prezioso che va difeso dai pericoli di una sua erosione e dal ritorno ad automatismi anacronistici, quale l’anzianità senza demerito. La fiducia, però, non si impone ma si conquista e occorre quindi procedere a una riflessione sincera, per correggere, ove necessario con nuove regole, quel che non ha funzionato. Senza però dimenticare che il sistema di autogoverno non appartiene in via esclusiva al Consiglio Superiore, ai Consigli Giudiziari e ai loro regolamenti ma è affidato alla responsabilità di tutti i magistrati, che devono dunque difenderlo e rispettarlo.
L’ANM, chiamata ad intervenire in recenti polemiche, ha ribadito con convinzione che i componenti del Consiglio Superiore debbono operare nel segno di un autogoverno indipendente, per una giurisdizione imparziale ed efficiente, nell’interesse dei cittadini: obiettivo, questo, che chiama anche le correnti a un rapporto nuovo e diverso con l’Istituzione Consiglio e con gli eletti provenienti dalle loro fila.
Il Comitato direttivo centrale e la Giunta esecutiva dell’ANM hanno affrontato ripetutamente il tema della qualità dell’autogoverno (si ricordano da ultimo il comunicato della Giunta del 29 novembre 2012 e le delibere del Comitato del 22 dicembre 2012 e del 1° giugno 2013), stimolando la riflessione in sede distrettuale e denunciando i condizionamenti e i rischi che possono derivare da ingerenze esterne o interne alla magistratura, da logiche territoriali o di appartenenza o comunque da ragioni diverse da quelle della rigorosa applicazione delle regole.
In breve: ampiezza e oggettività delle fonti di conoscenza, parametri sempre più definiti e verificabili, severo rispetto delle leggi e dei regolamenti, valutazione oggettiva, seria e imparziale delle qualità e dei titoli posseduti, congrua motivazione dei provvedimenti, rispetto dei tempi di trattazione delle pratiche, rifiuto e denuncia di ogni forma indebita di autopromozione e interferenza – che sono una vergogna contraria all’etica e al nostro codice deontologico – centralità delle funzioni giudiziarie rispetto ad ogni altra esperienza professionale, trasparenza, tutela del contraddittorio e del diritto di accesso agli atti, rifiuto di un’idea di carriera intesa quale verticale cursus honorum, sono i principi che devono guidare l’azione di autogoverno, le riforme regolamentari e la cultura ordinamentale di ciascun magistrato. Particolarmente attenta e severa deve essere la valutazione in sede di conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, in parallelo con l’accresciuto ruolo della dirigenza nel settore dell’organizzazione, della qualità e dell’efficienza degli uffici giudiziari.
Il tema della qualità dell’autogoverno rimanda anche a quello dello sviluppo e della diffusione di una cultura dell’autogoverno fra tutti i magistrati, delle forme e dell’ampiezza della loro partecipazione, fin dal momento della scelta di coloro ai quali ne va affidata la responsabilità diretta. Al riguardo, va anche osservato che la legge che regola l’elezione dei componenti togati del Consiglio Superiore è stata, nel tempo, oggetto di modifiche, che hanno prodotto l’attuale coesistenza di sistemi elettorali diversi, in sede locale e in sede centrale. L’Associazione, per la centralità e rilevanza di tali aspetti, ha avviato un’approfondita riflessione e il dibattito è solo iniziato e non concluso.
3.3. La giustizia disciplinare.
Problemi non inferiori investono l’esercizio della giustizia disciplinare: alle ricorrenti critiche di lassismo, spesso rivolte dal mondo della politica e in generale dagli osservatori esterni, si oppongono, paradossalmente, quelle inverse, rivolte dai magistrati, di eccessiva severità e formalismo. I dati statistici elaborati dalla Commissione europea per l’efficacia della giustizia (Cepej) rivelano un progressivo aumento delle condanne e risultano decisamente elevati, specie se messi a paragone con quelli relativi ad altre categorie professionali o alla magistratura di altri Paesi europei; essi, quindi, smentiscono le accuse di giustizia domestica e corporativa. Basti pensare che nell’anno 2010 le condanne disciplinari pronunciate in Italia sono state pari al quintuplo di quelle emesse in Francia e in Germania. Va anche ricordato quanto poco si presti all’accusa di lassismo e di corporativismo la giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, quale giudice disciplinare delle impugnazioni a composizione interamente togata, giurisprudenza talvolta ancor più severa di quella, già rigorosa, della Sezione disciplinare.
Il tema della giustizia disciplinare è rilevante e non può essere trascurato, in quanto tocca l’immagine di affidabilità e professionalità dell’ordine giudiziario e gli aspetti della responsabilità, che è concetto che attiene all’etica prima ancora che alla sanzione. Siamo dunque consapevoli della necessità di rifuggire da posizioni compiacenti, protettive e autoassolutorie, che potrebbero solo danneggiare la credibilità della magistratura e dell’autogoverno, ma occorre anche guardarsi dal pericolo di giudizi superficiali, che potrebbero condurre a modifiche precipitose di un sistema concepito quale presidio di indipendenza e di autonomia.
Il Comitato direttivo centrale dell’ANM, alla luce degli esiti di un partecipato convegno dedicato alla giustizia disciplinare nello scorso mese di maggio, nel ribadire la centralità che un corretto esercizio della giustizia disciplinare conserva quale strumento di credibilità e legittimazione della magistratura, ha elaborato un’articolata proposta di intervento e correzione della legge disciplinare e delle prassi applicative, alla quale faccio rinvio. Mi limito qui a ricordare la necessità che l’attenzione degli organi disciplinari si concentri anzitutto sui comportamenti che incidono sulla deontologia e sull'etica, i quali mettono a rischio la credibilità della funzione giudiziaria, soprattutto se posti in essere dai dirigenti; simili condotte richiedono interventi rapidi e severi. Occorre introdurre l'istituto della "riabilitazione" per i fatti di minor rilievo e definire gli effetti pregiudizievoli delle sanzioni, con la previsione di un limite temporale di durata. Quanto agli addebiti di natura formale e, in particolare, al fenomeno dei ritardi nel deposito dei provvedimenti, va evitato il rischio di promuovere il modello di un magistrato burocrate: a tal fine occorre distinguere i casi di effettiva negligenza da quelli in cui il ritardo è dovuto alle difficili condizioni di lavoro, che di fatto rendono incolpevoli condotte che pure astrattamente rientrano nelle ipotesi tipiche di responsabilità. Non possono gravare sui magistrati, infatti, i limiti e le inefficienze del sistema: l’aumento esponenziale dei carichi, la scopertura dei ruoli, le carenze del personale amministrativo, l’assenza di un sistema informatico efficiente che consenta, ad esempio, un controllo agevole dei tempi di custodia cautelare e di ogni altro termine del procedimento.
Della necessità di prevenire interferenze sull’esercizio della giurisdizione, dell’efficacia della nostra giustizia disciplinare, a dispetto di ogni facile demagogia, e delle difficoltà nelle quali i magistrati si trovano spesso ad operare, deve tenersi conto prima di accingersi a qualsiasi progetto di riforma. Quanto, in particolare, alla proposta, autorevolmente sostenuta, di sottrarre la giustizia disciplinare al CSM e di affidarla a una Corte esterna, di primo o di secondo grado, unica per tutte le magistrature, a composizione togata ridotta e minoritaria rispetto alla componente di estrazione politica, non possiamo non manifestare preoccupazione e ricordare quale delicato meccanismo leghi giustizia disciplinare ed esercizio della giurisdizione. In un momento in cui più forte si avverte l’esigenza di garantire un efficace controllo di legalità all’interno, fra l’altro, del settore pubblico, dell’economia e della finanza, più forte deve essere anche la garanzia di indipendenza e di autonomia dei magistrati. A ciò si aggiunge la difficoltà di concepire un organo disciplinare unico per tutte le magistrature, ordinaria, militare, amministrativa e contabile, in presenza, tuttavia, di diversi codici disciplinari e di profonde differenze di funzioni, di carichi e di condizioni di lavoro.
Dunque, qualsiasi progetto di riforma dell’organo disciplinare non potrebbe prescindere dall’appartenenza del giudice disciplinare al sistema di autogoverno, dalla sua indipendenza e dal rispetto della rappresentanza proporzionale togata prevista dalla Costituzione.
3.4. La Scuola Superiore della Magistratura.
L’anno trascorso ha visto il realizzarsi della piena operatività della Scuola superiore della magistratura. La scelta iniziale di distribuire la formazione dei magistrati su tre sedi distinte, che aveva provocato vive critiche, è stata fortunatamente modificata, con l’individuazione dell’unica sede nazionale della Villa di Castelpulci, nei pressi di Firenze.
Il trasferimento della funzione di formazione, per lunghi anni ottimamente svolta dal CSM, a una struttura distinta è stata operazione non facile, sia sotto il profilo strettamente organizzativo, sia, soprattutto, sotto quello culturale e ordinamentale. L’individuazione delle rispettive competenze, la definizione delle dinamiche che legano Scuola e Consiglio, le modalità di individuazione di tutor e relatori, i rapporti tra la dimensione centralistica e quella pluralistica della formazione decentrata, sono stati accompagnati da polemiche, che infelici pregiudizi su una presunta contrapposizione fra autonomia della Scuola e degenerazioni correntizie e lottizzatorie non hanno contribuito a placare.
Sono polemiche che, però, nei tempi più recenti hanno lasciato opportunamente il campo alla collaborazione, con l’obiettivo di consolidare i compiti di formazione affidati alla Scuola e, al tempo stesso, i legami con il CSM, che, attraverso le linee guida adottate da quest’ultimo, la tengono saldamente avvinta al sistema del governo autonomo della magistratura, nel necessario rispetto delle reciproche competenze. E’, questa, una prospettiva irrinunciabile, perché la formazione professionale e il costante arricchimento culturale dei magistrati sono presupposto fondamentale del carattere indipendente della giurisdizione.
3.5. Associazione e correnti della magistratura.
A più riprese, nel trattare della qualità dell’autogoverno e dei suoi limiti, viene evocato, generalmente in termini negativi, il ruolo delle correnti. La storia e la crescita dell’associazionismo giudiziario non possono prescindere dalla funzione svolta dai suoi gruppi interni fin dagli anni ’50. Dalla nascita e dallo sviluppo delle correnti tradizionali si è giunti, negli anni più recenti, all’evoluzione di realtà nuove, formatesi talora in polemica contro il cosiddetto correntismo. Su tali critiche, peraltro largamente diffuse anche all’esterno della magistratura, si impone una riflessione.
Vanno respinte con sdegno le polemiche fatte di insulti gratuiti alla giurisdizione. Sono quelle che sostengono l’idea secondo la quale l’adesione all’uno o all’altro dei gruppi che si riconoscono nell’Associazione determinerebbe un condizionamento del concreto esercizio della funzione giudiziaria o addirittura un’ingerenza politicamente orientata nel merito delle decisioni. L’ANM rifiuta una tale visione distorta della magistratura associata, che non solo offende l’etica del magistrato e i valori su cui si fonda la nostra Associazione, ma costituisce un attacco grave e inaccettabile alla giurisdizione e alla sua legittimazione.
Vi sono poi le critiche rivolte alle distorsioni che la presenza delle correnti provocherebbe nel corretto funzionamento degli organismi di autogoverno. Con tali critiche abbiamo il dovere di confrontarci con onestà intellettuale e senza ipocrisie. Va infatti riconosciuto che i gruppi non sempre hanno dato buona prova di sé, offrendo argomento ai critici dell’attuale sistema di autogoverno.
L’associazionismo giudiziario non deve, in alcuna delle sue articolazioni, interferire indebitamente con le funzioni del CSM. L’ANM è infatti una libera associazione, che ha tra i suoi scopi proprio quello di stimolare tra i magistrati una sempre maggiore consapevolezza dei valori costituzionali che permeano la giurisdizione e l’autogoverno: anche qui la magistratura ha il dovere di dimostrare la propria capacità di autoriforma. Al richiamo vibrato ai nostri doveri etici, sanciti dal codice che l’Associazione si è data, dovranno aggiungersi prassi virtuose, opportune modifiche regolamentari, la realizzazione di un controllo diffuso, volto a prevenire, respingere, denunciare interferenze ed abusi, secondo le linee che l’ANM ha indicato e che ho già sommariamente richiamato.
Nelle logiche lottizzatorie e clientelari, nell’idea del gruppo come centro di potere, in simili degenerazioni noi non possiamo riconoscerci e le rifiutiamo. La magistratura associata, però, non può rinunciare alla sua ricchezza culturale e quindi anche alle sue articolazioni interne. L’attacco a tale visibile pluralismo rischia di risolversi nell’attacco alla libertà associativa, all’assetto costituzionale della magistratura, al ruolo, alla composizione e alla funzione di garanzia del CSM e rischia di lasciare spazio a realtà lobbistiche non trasparenti. Discutere del nostro lavoro e dei principi ai quali deve ispirarsi, decidere quali debbano essere i parametri di giudizio nella valutazione della professionalità di un giudice, ragionare di cosa sia un buon dirigente e di come lo si debba scegliere, discutere di come si debbano assegnare gli affari e di come si possano organizzare al meglio gli uffici, riflettere sul rapporto fra giurisdizione e società, sono attività che si offrono al confronto di diverse opzioni culturali. E’ quello che avviene da decenni ed è stato un fattore di crescita della magistratura italiana, di tutela della sua autonomia, di arricchimento e sviluppo dei suoi organi di autogoverno. I gruppi devono essere soltanto la trasparente manifestazione esterna di quella ricchezza culturale, che è antidoto alla sfiducia e stimolo alla passione, all’impegno e alla consapevolezza del valore della nostra funzione, nell’esercizio della giurisdizione e nell’attività associativa.
3.6. Riforma della giustizia e riforma della magistratura.
Il tema della riforma della giustizia viene spesso identificato con quello della riforma della magistratura. L’argomento, purtroppo, è stato affrontato sovente in maniera distorta e in termini di polemica e di propaganda. Una tale impostazione, alla base di progetti di riforma che, se realizzati, potrebbero produrre effetti deleteri sull’ordinamento e sul processo, non giova a una riflessione serena, stimola reazioni di chiusura corporativa e va quindi definitivamente abbandonata.
Non serve in questa sede ripercorrere le origini storiche – del resto ben note – della giurisdizione quale funzione indipendente e mi limito a ricordare, a fronte di proposte di riforma costituzionale “grande” o “onnicomprensiva”, che non rispondono ad alcuno scopo di semplificazione ed efficienza, che vorrebbero introdurre profonde alterazioni del sistema e che di tanto in tanto vengono reiterate, che quelle ragioni antiche, che risalgono a una riflessione precedente a Montesquieu e sono state accolte dalla nostra Costituzione, rimandano al principio di eguaglianza, che va garantito attraverso una giurisdizione indipendente, professionale e imparziale. Vanno respinte difese corporative e reazioni di chiusura ad ogni novità. Tuttavia, proprio allo scopo di assicurare riforme adeguate ed efficaci ed evitare avventure suggerite da ragioni di parte e contingenti e da esigenze che possono e debbono essere assicurate con altro mezzo, occorre anche richiamare l’attenzione sulla delicatezza degli equilibri di cui si fece carico il legislatore costituente, sul grado dei diritti fondamentali coinvolti, sulla necessità di una profonda ponderazione dei bisogni effettivi, delle reali inadeguatezze del sistema e delle conseguenze che seguirebbero ad ogni sua alterazione.
Senza volere in questa sede avanzare proposte o formulare giudizi compiuti sui disegni di riforma finora elaborati, desidero invece richiamare alcuni principi e indicare i limiti che qualsiasi progetto di modifica degli assetti della magistratura dovrebbe rispettare, con particolare riferimento ai temi della responsabilità civile e della separazione delle carriere. Quanto alla giustizia disciplinare, ne ho già fatto cenno nel precedente paragrafo 3.3.
3.6.1. La responsabilità civile dei magistrati.
Della responsabilità civile dei magistrati si parla spesso in modo assai poco informato, strumentale e molto demagogico, con slogan come quello, molto in voga e di facile presa, “chi sbaglia paga”, quasi a suggerire l’idea di privilegi da abbattere. In realtà, a ben vedere, non esiste una regola unica di responsabilità, che valga per tutte le professioni e per tutte le funzioni pubbliche. Parlamentari, avvocati, medici, insegnanti, per limitarmi a qualche esempio, sono altrettante categorie per le quali vigono regole particolari in tema di responsabilità penale o civile, in considerazione del grado costituzionale, della delicatezza o dell’elevata difficoltà tecnica della funzione o dell’attività professionale esercitata (art. 68 Cost.; art. 598 c.p.; art. 2236 c.c.; art. 3 decreto legge 13 settembre 2012, n. 158; art. 61 legge 11 luglio 1980, n. 312).
Quanto ai magistrati, la natura litigiosa delle situazioni trattate, il carattere coattivo dei provvedimenti emessi, l’interpretazione spesso incerta del diritto e la valutazione non meno complessa dei fatti e delle prove sono fra i tratti tipici della nostra funzione e su questi deve misurarsi la disciplina della responsabilità civile. Non è questa la sede per affrontare in modo esaustivo l’argomento, mi limito ad osservare che è inammissibile, anzitutto, qualsiasi forma di azione diretta, comunque denominata – citazione nei confronti del magistrato o litisconsorzio necessario che dir si voglia – che non si rinviene in alcun ordinamento europeo, che è esclusa dal Consiglio d'Europa (raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sui giudici n. 12 del 2010) e che si risolverebbe in uno strumento di inammissibile pressione sull’imparzialità del giudice. Parimenti, deve ritenersi illegittima la possibilità di sindacare il merito delle decisioni assunte: non si vuole difendere, ovviamente, gli errori e le negligenze evidenti e inescusabili ma si vuole tutelare la giurisdizione dal pericolo di condizionamenti e di reazioni strumentali e interessate e dalla deriva del conformismo interpretativo.
Qualsiasi riforma della disciplina della responsabilità civile dello Stato o del magistrato dovrà dunque rispettare i principi di indipendenza e imparzialità della funzione giudiziaria e l’elevata sensibilità della materia, per la delicatezza e difficoltà che caratterizzano le attività di interpretazione e valutazione tipiche della funzione giudiziaria e per i rischi di interferenza con l’esercizio indipendente e imparziale della giurisdizione; dovrà tenere conto dell’elevato rischio di proliferazione delle azioni civili, ancorché infondate, potenzialmente tante quante sono le parti controinteressate ai provvedimenti emessi; dell’impossibilità di trasferire tal quali, dal diritto comunitario a quello nazionale, concetti elaborati dalla Corte europea a fronte della varietà degli istituti, delle categorie giuridiche e delle discipline nazionali; dei limiti nei quali la Corte del Lussemburgo ha contenuto il principio della responsabilità dello Stato, si badi, dello Stato e non del magistrato, per manifesta violazione del diritto comunitario.
Infine, non va trascurato il rischio di un ribaltamento ingiusto, sul magistrato, degli effetti delle molte disfunzioni che discendono da responsabilità altrui: norme di difficile interpretazione e non sempre coerenti con il diritto comunitario, carenze di organico e di risorse, sovraccarico dei ruoli.
In realtà, il tema della responsabilità civile dello Stato e dei magistrati viene spesso agitato non già col fine, che gli è proprio, di assicurare un equo risarcimento del danno conseguente agli errori giudiziari, ma con lo scopo di controllare o di condizionare l’esercizio della giurisdizione. Ne sono prova il tentativo di introdurre l’azione diretta di responsabilità, a stento scongiurato sul finire della XVI legislatura, e, da ultimo, la confusione intenzionale e strumentale che si è fatta tra responsabilità del magistrato e responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, nei commenti seguiti all’invito della Commissione europeaa conformare la legislazione nazionale alle sentenze della Corte di giustizia del Lussemburgo.
3.6.2. La separazione delle carriere.
Quella della separazione delle carriere è questione sostenuta con forza da quanti la ritengono garanzia di terzietà del giudice e conseguenza coerente del sistema accusatorio accolto dal vigente codice di procedura penale. Secondo tale impostazione, sarebbe insufficiente l’attuale separazione delle funzioni, realizzata con la riforma del 2006. Se è vero che in molti Paesi il pubblico ministero costituisce ordine distinto da quello dei giudici, è anche vero che un corretto approccio allo studio del diritto comparato impone un esame attento della realtà storica, culturale, politica, processuale di ciascun Paese. In realtà, il carattere ancora largamente ibrido del nostro sistema processuale, nel quale il pubblico ministero conserva un ruolo di parte imparziale assai più marcato rispetto, ad esempio, ai Paesi di common law, è di ostacolo all’innesto automatico, nell’ordinamento italiano, di quelle esperienze.
Peraltro, non può tacersi come in Italia si ripetano con inquietante frequenza casi di aggressione ai principi d’indipendenza della magistratura, con attacchi che in altri Paesi – compresi quelli nei quali la separazione fra giudici e pubblici ministeri è più profonda – sarebbero impensabili e scandalosi. Non è un caso che separazione delle carriere, riduzione del pubblico ministero ad avvocato della polizia e abolizione del principio di obbligatorietà dell’azione penale siano spesso unite insieme, quali tappe progressive di una riforma radicale, che condurrebbe ad una trasformazione profonda della giurisdizione. L’approdo inevitabile al controllo esterno delle modalità di esercizio dell’azione penale e al loro condizionamento ridurrebbe l’indipendenza del giudice a un orpello senza sostanza.
Dunque, difendere l’unicità delle carriere vuol dire difendere l’indipendenza della giurisdizione; vuol dire opporsi alla trasformazione della magistratura requirente in un corpo autoreferenziale, sottratto a quell’ampio controllo diffuso che si realizza all’interno dell’unico ordine giudiziario; vuol dire affermare il valore dell’appartenenza del pubblico ministero alla cultura della giurisdizione, che è cultura dei diritti e delle garanzie.
4. Giustizia e mass media.
Il tema del rapporto fra giustizia e mezzi di informazione è complesso e comprende almeno due profili principali: quello dell’informazione sulla giustizia, specialmente sulla giustizia penale, e quello del rapporto fra i magistrati e l’informazione.
4.1. L’informazione sulla giustizia.
Quanto al primo, non c’è dubbio che in democrazia la pubblicità del processo ha la funzione di consentire alla pubblica opinione l’esercizio della funzione di controllo sul potere giurisdizionale, ma è anche vero che il rilievo crescente della giustizia nella società e il conseguente accentuarsi dell’interesse dei mass media per i temi della giustizia hanno reso più vivo il problema della disciplina di tali fenomeni, anche e soprattutto sul piano delle regole deontologiche cui dovrebbero attenersi tutti i protagonisti del processo e coloro che sono chiamati a “raccontarlo” nell’esercizio del loro diritto-dovere di informare i cittadini.
Purtroppo, accade sempre più spesso che l’inchiesta giornalistica su fatti di cronaca, considerati degni di interesse per l’opinione pubblica, si tramuti in un “processo mediatico”, parole che esprimono i guasti che un’eccessiva attenzione, se non una vera e propria pressione esercitata dai mezzi di comunicazione, possono provocare al sereno sviluppo delle indagini e al corretto svolgimento dei meccanismi processuali. Il dilagare dei “processi paralleli” in TV ha prodotto, tra gli altri, l’effetto distorto di una diffusa e crescente tendenza, da parte dell’opinione pubblica, a percepire alcune trasmissioni televisive come il luogo preferito per la ricerca delle prove e per la celebrazione di un processo più immediato e più diretto rispetto a quello che si svolge nelle aule di tribunale, appesantito da procedure formali, poco comprensibili al grande pubblico. Ne segue che, in quella sede, il ruolo di giudici, accusatori e difensori è svolto da conduttori televisivi, da giornalisti o comunque da soggetti estranei al mondo giudiziario, senza quelle garanzie che nella cultura giuridica del Paese rappresentano un caposaldo dello Stato di diritto. L’esigenza di ottenere sempre maggiore consenso (o piuttosto maggiore audience) ha trasformato tali “processi paralleli” in vere e proprie “fiction”, caratterizzate dalla spettacolarizzazione della vicenda processuale, da informazioni spesso parziali e unilaterali, e, talvolta, dalla violazione delle norme penali poste a tutela del segreto investigativo e delle regole deontologiche volte in primo luogo a tutelare la dignità della persona.
Il richiamo al rispetto di norme penali e deontologiche appare doveroso ed anche prioritario rispetto a disegni di legge che negli ultimi anni, con l’occasione, o forse è meglio dire, col pretesto di tutelare il segreto investigativo e la dignità delle persone coinvolte in procedimenti giudiziari, miravano da un lato a depotenziare alcuni strumenti investigativi, dall’altro a limitare fortemente il legittimo esercizio del diritto di cronaca. Intendo riferirmi ai propositi di modifica della normativa in materia di intercettazioni telefoniche. Sul punto l’ANM è favorevole a migliorare l’attuale assetto, con una più compiuta disciplina della c.d. udienza filtro e l’introduzione di rigorosi termini di fase, per impedire la pubblicazione di intercettazioni irrilevanti, a tutela della riservatezza degli indagati e dei soggetti estranei al procedimento ma ciò può e deve avvenire al solo fine di contemperare privacy e diritto all’informazione, senza intaccarne per il resto condizioni e procedura.
Va anche ricordato che la sempre più diffusa pubblicazione degli atti processuali, fino alla messa in onda degli audio originali degli interrogatori degli indagati o i video dei sopralluoghi giudiziari, non solo costituisce violazione dell’ art. 114 del c.p.p., ma soprattutto non appare funzionale a un corretto esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, nulla aggiungendo a un esaustivo resoconto dello svolgimento delle indagini ma puntando piuttosto a solleticare un senso di morbosa curiosità nella pubblica opinione.
Un’informazione distorta favorisce il tifo giudiziario, stimola il prevalere dell’elemento emozionale e deprime il valore della buona tecnica processuale. Ne deriva una critica disinformata, mossa alle indagini, al processo e ai giudici sulla base di soggettive verità pregiudiziali. L’aula di giustizia cessa così di essere la sede di formazione della verità processuale e diviene, paradossalmente, il luogo in cui ciascuno mette alla prova la legittimazione del processo in base alla rispondenza della sentenza alle proprie convinzioni e alle proprie attese; l’esito del giudizio si trasforma nel momento di verifica della credibilità personale e professionale di giudici e pubblici ministeri. Occorre, dunque, ricordare che la pena è la sanzione di comprovati comportamenti illeciti e non è, invece, suggello di verità preconcette né sanzione della supposta violazione di valori etici. E’ bene ricordarlo, a tutela dei giudici e a garanzia della loro indipendenza e imparzialità.
4.2. Magistrati e informazione.
Il rispetto delle regole deontologiche è imprescindibile anche per la condotta che noi magistrati dobbiamo tenere nel rapporto con i mezzi di informazione. I magistrati condividono con gli altri cittadini il diritto di manifestare il proprio pensiero e di intervenire nel dibattito pubblico, soprattutto quando esso riguardi la giustizia, il suo funzionamento e le proposte di riforma. E’ un diritto che non può essere compresso oltre quanto sia strettamente richiesto dalla peculiarità della funzione giudiziaria e dai doveri ad essa connessi di garantirne l’imparzialità di sostanza e di immagine. Occorre dunque individuare il punto di equilibrio fra l’esercizio di quel diritto e il dovere di imparzialità e, a tal riguardo, per il magistrato assume un rilievo decisivo la deontologia.
Tale equilibrio è individuato con chiarezza dal codice etico della nostra Associazione, che, nell’affrontare nell’articolo 6 il tema dei rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, stabilisce i seguenti principi:
- il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio;
- quando occorre garantire la corretta informazione, evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati;
- non partecipa a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica;
- nel rilasciare dichiarazioni ed interviste si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura e uguale cautela osserva in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione.
Il tema delle dichiarazioni pubbliche dei magistrati, degli eventuali eccessi e della conseguente responsabilità è stato ed è tuttora al centro di un vivace dibattito, alimentato, di recente, anche da una proposta di modifica della legge disciplinare, che prevede l’introduzione di nuove ipotesi di illecito. Con riferimento a tale proposta abbiamo denunciato il pericolo che essa, per la genericità che viola il principio di tassatività, possa prestarsi a un impiego strumentale e mirato, sulla base di valutazioni effettuate a posteriori. Non va dimenticata, infatti, l’estrema delicatezza della materia, così come non va dimenticato che non tutto ciò che è irrilevante sul piano disciplinare è anche deontologicamente e professionalmente lecito e che non va trascurato il valore della disapprovazione diffusa.
Noi magistrati abbiamo il dovere, prima ancora che il diritto, di portare, senza reticenze e autocensure, il nostro contributo nel dibattito pubblico sui temi della giustizia ma per primi dobbiamo accuratamente evitare atteggiamenti non misurati che rischiano di appannare la nostra immagine di imparzialità e di professionalità. E’ proprio muovendo da questa consapevolezza che l’ANM, anche nei tempi recenti, di fronte ad alcuni eccessi, è intervenuta nel richiamare i doveri di equilibrio e riserbo ai quali ogni magistrato deve attenersi nel rapporto con i mass media. Rientra nei compiti di un’Associazione che vuole tutelare, in modo responsabile, l’immagine di serietà e professionalità dell’intera categoria l’invito ai propri iscritti a non intervenire su quanto costituisce l’oggetto specifico della propria attività di ufficio e a evitare di partecipare a dibattiti e manifestazioni, ove ciò possa comportare un proprio coinvolgimento in logiche di schieramento politico.
Infine, l’Associazione ha ricordato i rischi che possono derivare dalla ricerca del consenso della pubblica opinione, consenso che va tenuto distinto dalla fiducia nella magistratura e nei principi della legalità, la quale è fondamento stesso della nostra legittimazione.
Il dovere di tutelare il decoro della magistratura lo abbiamo esercitato anche reagendo con fermezza a vergognose campagne denigratorie nei confronti della nostra categoria e nei confronti di singoli magistrati, con intimidazioni, offese personali e violazioni della sfera privata. Ancor più pericoloso è l’attacco portato alla professionalità del magistrato e alla stessa credibilità dell’intero sistema giudiziario, che si realizza con interpretazioni e ricostruzioni giornalistiche false e distorte, a volte vere e proprie banalizzazioni, degli atti giudiziari. In questi casi è fondamentale il ruolo di una corretta informazione, che ripristini la verità sul contenuto e sugli effetti dei provvedimenti emessi. Un tale dovere spetta, oltre che agli organi associativi, anzitutto ai dirigenti degli uffici giudiziari, i quali, fra l’altro, devono assumersi la responsabilità di tutelare la professionalità degli appartenenti al proprio ufficio, a fronte degli attacchi denigratori diffusi sui mezzi di informazione, anche al fine di prevenire l’esposizione individuale dei magistrati e scoraggiare le tentazioni di protagonismo, soprattutto in situazioni di particolare delicatezza e allarme sociale.
5. L’attività recente dell’ANM.
In questi anni l’ANM ha proseguito sulla propria strada di un’intransigente difesa dell’assetto costituzionale della giurisdizione e del decoro della magistratura, anche a fronte di proposte e di attacchi che miravano a scardinarne ruolo e funzione. Ricordo, fra l’altro, l’impegno appassionato, profuso nella difesa dei valori di indipendenza, autonomia e imparzialità contro inaccettabili proposte di riforma del regime della responsabilità civile dei magistrati. La difesa dei principi costituzionali ha visto l’ANM operare in stretto contatto con le altre magistrature e con l’Avvocatura dello Stato, in un’azione condivisa, realizzata grazie all’efficace coordinamento del Comitato Intermagistrature.
L’Associazione, inoltre, si è confermata autorevole protagonista del confronto politico-istituzionale, elaborando proposte di riforma organiche, mirate a realizzare il buon funzionamento del sistema giudiziario e l’eliminazione delle attuali disfunzioni: mi riferisco, da ultimo, al documento elaborato nello scorso mese di febbraio e offerto alla riflessione di opinione pubblica e forze politiche poco prima delle recenti elezioni del Parlamento nazionale. Le linee indicate in quel documento si ritrovano in alcuni disegni di legge: si pensi, ad esempio, a quello, attualmente all’esame del Senato, in materia di messa alla prova, processo contumaciale e misure alternative. A tali iniziative si aggiunge il contributo che da sempre offriamo nelle Commissioni Giustizia delle Camere: disegni di legge sulla depenalizzazione e su misure cautelari, messa alla prova, processo contumaciale e misure alternative alla detenzione in carcere, riforma della diffamazione a mezzo stampa, disciplina della partecipazione dei magistrati all’attività politica, revisione delle circoscrizioni giudiziarie, decreto “del fare”, riforma sulla violenza di genere, sono fra i principali temi sui quali siamo intervenuti con elaborati pareri orali e scritti. Su altre materie – ad esempio, la legge anticorruzione e la questione del contrasto fra diritto al lavoro, tutela dell’ambiente e libertà d’impresa (drammaticamente esploso con la vicenda dell’Ilva) – l’Associazione si è ripetutamente espressa con documenti scritti e interventi su stampa, radio e televisione da parte dei suoi rappresentanti.
Attenta è stata la presenza sui temi della questione morale, come testimoniato da ripetuti interventi e comunicati pubblici.
Quanto alla materia dell’autogoverno, della sua qualità e trasparenza, come già ricordato, le vivaci discussioni generatesi a tale riguardo hanno indotto a stimolare una riflessione in sede locale, che ha poi portato all’elaborazione, da parte del Comitato direttivo centrale, di un documento contenente un’analisi delle criticità e proposte di intervento e di riforma. Altrettanto approfondita è stata la riflessione in sede associativa sulla delicata materia degli incarichi fuori ruolo, oggetto di recente disciplina nell’ambito della legge 6 novembre 2012, n. 190.
Va poi menzionata l’attività svolta in campo internazionale, con la partecipazione alle attività dell’Unione Internazionale dei Magistrati (UIM), con l’obiettivo di favorire il confronto delle esperienze e lo sviluppo e la difesa, oltre l’ambito dei singoli Stati, di una cultura condivisa del principio di indipendenza.
Tale attività di elaborazione e approfondimento è stata possibile anche grazie al contributo che viene dalle commissioni di studio, la cui attività è resa più agile dall’impiego dello strumento informatico.
Non minore impegno è stato profuso nell’attività sindacale. All’attenzione rivolta ai profili retributivi, intesa non come difesa egoistica di privilegi ma come tutela di uno strumento di garanzia della nostra indipendenza, si è aggiunta la ripetuta denuncia – anche in occasione dei frequenti incontri con le Autorità istituzionali – delle carenti condizioni di lavoro che tuttora caratterizzano gli uffici giudiziari. Va poi ricordato, come momento qualificante dell’attività associativa, l’ausilio realizzato con l’istituzione di un ufficio sindacale e la riattivazione di uno sportello on line che offre qualificati e tempestivi pareri in materia di retribuzione, previdenza e, in generale, di trattamento della categoria. Costante attenzione abbiamo rivolto ai magistrati di nuova nomina, coinvolti in un impegno associativo diretto a stimolare la consapevolezza istituzionale del ruolo e la cultura della giurisdizione.
Con l’avvocatura abbiamo mantenuto un confronto franco, aperto a iniziative condivise (ad esempio sul tema del trattamento carcerario) ma fermo sui principi irrinunciabili: penso, anzitutto, al tema della separazione delle carriere.
Particolarmente curato è stato l’aspetto della comunicazione, interna ed esterna. Anzitutto va ricordata l’attività convegnistica. Negli ultimi due anni sono stati organizzati convegni pubblici, dedicati ai temi della giustizia e della legalità come motore di crescita (17 gennaio 2012), della responsabilità civile dei magistrati (16 maggio 2012), del carcere (4 dicembre 2012), della giustizia disciplinare (16 maggio 2013). Da ultimo, il 27 settembre 2013 l’Associazione ha voluto celebrare l’anniversario dei 50 anni dall’ingresso delle donne in magistratura, con un convegno assai partecipato, in cui la ricorrenza è stata l’occasione per stimolare la riflessione sul principio della parità di genere, come aspetto particolare del più ampio tema della realizzazione sostanziale del principio di uguaglianza.
A tali iniziative si è aggiunta la partecipazione a numerose manifestazioni pubbliche sul tema della legalità, fra le quali ricordo le commemorazioni organizzate in Sicilia in occasione dell’anniversario della morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, Giacomo Ciaccio Montalto e Rocco Chinnici, la manifestazione Parole di Giustizia a La Spezia (giugno 2012 e maggio 2013) e il Festival del diritto di Piacenza (settembre 2012 e 2013); e, ancora, la nostra presenza ai congressi dell’Unione delle camere penali e dell’Unione delle Camere civili, ai convegni organizzati dal Lapec a Siracusa e ad Erice, agli incontri organizzati da associazioni, sindacati e gruppi politici di ogni colore, in un confronto aperto a tutti e che rifiuta caratterizzazioni ideologiche. A tale attività si aggiungono le innumerevoli interviste rilasciate ai giornali, la partecipazione alle trasmissioni televisive e radiofoniche.
Particolarmente vivace è stata l’attività delle giunte locali, troppo ricca per essere descritta in dettaglio: mi limito a ricordare l’impegno adoperato nel curare la diffusione nelle scuole e tra i giovani della cultura della legalità e l’organizzazione delle toccanti cerimonie di commemorazione delle stragi di mafia.
Consapevoli della necessità di arricchire gli strumenti di informazione e divulgazione, abbiamo voluto sviluppare la comunicazione anche sui social network – anzitutto Facebook e Twitter ma presto anche Youtube, Google plus e Pinterest – e, in parallelo, abbiamo rinnovato integralmente il sito web, destinato a diventare un’interfaccia agile fra noi e la società più attenta ai valori della legalità e della giustizia. Attraverso il sito, è nostra intenzione rivitalizzare in tempi brevi la nostra storica rivista “La Magistratura”, aperta per statuto al contributo di tutti i magistrati, e valorizzare lo straordinario patrimonio documentale custodito nei locali dell’Associazione, perché sia reso fruibile da tutti, come ricordo storico e come stimolo per una riflessione sui nostri valori e sui nostri principi: è una riflessione che viene da lontano e che deve continuare.
E’ un’attività impegnativa, resa possibile da un serio sforzo comune, del quale devo ringraziare i colleghi del Comitato direttivo centrale, della Giunta esecutiva, delle Giunte sezionali e i collaboratori dell’Ufficio stampa e della Segreteria amministrativa.
6. Conclusioni.
Confido che questo Congresso sia un momento di riflessione, che possa segnare un passo in direzione di una giustizia migliore e più efficiente, che non tradisca la propria funzione e le attese dei cittadini, che vada oltre le grettezze del contingente e guardi a un orizzonte alto e possibile, fatto di buone riforme, di innovazione, di un’elaborazione culturale rivolta a una prospettiva europea e sovranazionale. Una giustizia, cioè, simile a quella che già vive nei nostri sogni e nelle nostre speranze. Non servono rituali stanchi né serve il senso inutile delle parole ripetute.
Nessuna riforma, nessuna organizzazione efficiente, nessuna buona legge, però, potrà mai sostituire l’impegno individuale. E allora, in conclusione, il nostro pensiero va a tutti i colleghi, a coloro che svolgono il loro lavoro, lontano dall’attenzione dei mass media, in scarsità di risorse e con carichi gravosi, a coloro che sono esposti al pericolo e non se ne lasciano condizionare, a quanti sono vittima di minaccia, di offesa o di critica ingiusta e non per questo perdono serenità e determinazione, a tutti i magistrati che conservano, nonostante le difficoltà, la consapevolezza del valore e della dignità del proprio lavoro. E con loro, a quanti altri – personale amministrativo, forze dell’ordine, magistrati onorari, avvocati – condividono l’impegno per una giustizia aperta alla società e per la società, che sia degna della nostra storia e della nostra democrazia.
Scarica il pdf