L’iniziativa di raccolta di firme per l’adozione di una legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dal comitato per la separazione delle carriere nella magistratura, con previsione di distinti concorsi per l’accesso, non può essere condivisa.
L’analisi complessiva della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare elaborata dall’Unione delle Camere Penali evidenzia che la stessa va ben oltre lo slogan “separare”, mirando in sostanza a stravolgere l’intero impianto costituzionale e prevedendo, oltre alla separazione delle carriere, in particolare:
- la possibilità di nominare, a tutti i livelli della magistratura giudicante, avvocati e professori ordinari universitari di materie giuridiche al di fuori della selezione con pubblico concorso;
- la modifica della composizione dei membri elettivi dei due istituendi CSM rispetto a quello unitario esistente, passando dalla prevalenza numerica della componente togata, costituzionalizzata oggi nella misura dei due terzi, alla sua parificazione rispetto a quella laica, di nomina politica;
- la eliminazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale;
- l’abrogazione del comma 3 dell’art. 107 che prevede le garanzie ordinamentali in favore del pubblico ministero.
Il progetto complessivo di riforma, pertanto, apparentemente presentata con l’obiettivo di realizzare il principio costituzionale del giusto processo dettato dall’art.111 della Costituzione, getta le basi per l’assoggettamento dell’ordine giudiziario al potere politico, con conseguente stravolgimento della architettura costituzionale che, con la previsione di pesi e contrappesi tra i poteri dello Stato, mira a garantire l’equilibrio tra gli stessi.
Ed invero, mantenere la formale garanzia dei principi costituzionali dell’autonomia ed indipendenza anche per la magistratura requirente ma poi “segregarla” istituzionalmente rispetto a quella giudicante vuole dire, portarla, in modo inevitabile, alle dipendenze dalla politica, come era prima del r.d.l. n. 511/1946, nel periodo fascista.
Analogamente, la diversa composizione percentuale delle componenti, laica e togata, presente in seno all’organo di autogoverno, incide fortemente sui rapporti e sugli equilibri nei processi decisionali del medesimo, con la conseguenza di attribuire alla politica, nelle decisioni sulla carriera dei magistrati, giudicanti e requirenti, e sulle vicende degli uffici giudiziari, un peso determinante.
Inoltre, la fine della obbligatorietà dell’azione penale comporterà la scelta politica dei reati da perseguire con conseguente vulnus al principio di parità dei tutti i cittadini dinanzi alla legge. Sono note a tutti le difficoltà di effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà legate all’elevatissimo e crescente numero di notizie di reato che pervengono agli uffici di procura ed alla conseguente criticità della loro gestione. L’Unione delle Camere Penali propone di risolvere tale criticità introducendo la discrezionalità dell’azione penale ed affidandone i criteri di esercizio al Parlamento, in tal modo rimettendo alla maggioranza politica di turno la scelta di quali reati perseguire e, quindi, al dibattito parlamentare il controllo del modo di operare degli uffici giudiziari. Diversamente, deve riaffermarsi che le problematiche legate al numero dei procedimenti ed alla ipertrofia dell’azione penale non vanno risolte sopprimendo uno dei principi cardine di civiltà giuridica del nostro sistema ma operando sulle cause della proliferazione dei procedimenti con una seria depenalizzazione, oltre che con una efficace riforma del processo penale, che consenta di recuperare efficienza.
Anche il reclutamento di avvocati e professori nei ruoli della magistratura giudicante, peraltro rimessa alla scelta discrezionale del legislatore anche nella misura di tale immissione, rischia di segnare la fine della “magistratura professionale”, che vede l’accesso ai ruoli esclusivamente a mezzo di concorso pubblico, e la sostituzione con una categoria di magistrati giudicanti di “nomina politica”.
Ciò che evidenzia l’intero assetto della riforma è la volontà di limitare il controllo di legalità attraverso il controllo politico della magistratura.
Noi diciamo che l’indipendenza dell’ordine giudiziario nel suo complesso e la obbligatorietà dell’azione penale non sono privilegi di categoria ma garanzie per tutti i cittadini e per la democrazia; e sorprende che l’Unione Camere Penali delinei una figura del Pm che tali garanzie contraddice.
Si tratta peraltro di principi che fanno dell’Italia un modello cui la Comunità Europea si ispira. Basti pensare alla raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2000 sul tema “The Role of Public Prosecution in the Criminal Justice System” o, ancora, più recentemente alla Roma Chapter, approvata dal Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei nel 2014, che statuisce testualmente che: “L’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero costituiscono un corollario indispensabile dell’indipendenza del potere giudiziario. Pertanto, dovrebbe essere incoraggiata la tendenza generale a rafforzare l’indipendenza e l’effettiva autonomia del pubblico ministero”.
Ma diciamo ancora di più.
Riteniamo che sia arrivato il momento storico per superare la disciplina della incompatibilità tra funzioni su base regionale tanto più dopo l’ampliamento territoriale dei circondari dovuto alla riforma delle circoscrizioni giudiziarie; incompatibilità che, peraltro, non ha alcuna ragione di essere per il passaggio da funzioni giudicanti a quelle requirenti.
Risulta, infatti, evidente nella pratica giudiziaria di tutti i giorni – e gli avvocati ne sono ben consapevoli – che per evitare apparenze sconvenienti è sufficiente che le attuali limitazioni al cambio di funzioni venga ristretto, con i dovuti correttivi per le funzioni distrettuali, al medesimo circondario.Le restrizioni al passaggio di funzioni, introdotte dal d.lgs. n. 160/2006, come successivamente modificato dalla l. n. 111/2007, hanno fatto registrare un crollo della percentuale di mutamenti delle funzioni che, negli anni dal 2011 al 30 giugno 2016, ha interessato solo lo 0,83 % di requirenti e lo 0,21 % dei giudicanti sicché le funzioni possono ritenersi, nella sostanza, separate.
La formazione del PM non va limitata al solo aspetto della specializzazione nelle tecniche di indagine dovendo, invece, continuamente alimentarsi della cultura della giurisdizione. In tale prospettiva la tanto criticata e limitata “osmosi” tra le funzioni di giudice e di Pubblico Ministero continua a rappresentare una importante valvola per la valorizzazione della cultura della giurisdizione del Pubblico Ministero e, quindi, un valore.
Per queste ragioni esprimiamo la nostra ferma contrarietà alla proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali che, alterando i rapporti tra poteri dello Stato determina il sostanziale controllo della funzione giurisdizionale da parte della politica in tal modo finendo col fare delle disfunzioni di oggi la regola di domani.
Approvato all’unanimità