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Trasferimento alla sede arbitrale di procedimenti pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria

di Stefano Schirò - 9 gennaio 2015

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1. L’art. 1 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni nella legge 10 novembre 2014, n. 162, prevede la possibilità del trasferimento alla sede arbitrale di procedimenti pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria (cosiddetta translatio iudicii in sede arbitrale).
La norma si inserisce tra le misure di degiurisdizionalizzazione adottate, come evidenziato nelle premesse del citato provvedimento legislativo, con la “finalità di assicurare una maggiore funzionalità ed efficienza della giustizia civile” e per “la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”.
Ci si deve chiedere pertanto se lo strumento del trasferimento alla sede arbitrale dei processi civili pendenti sia funzionale alle finalità perseguite.
Il giudizio pressoché unanime dei commentatori è nel senso, non solo della sostanziale inutilità della misura ai fini della definizione dell’arretrato, ma anche di una sua complessiva “dannosità di sistema”, in quanto destinata a “generare una insostenibile contaminazione tra procedimento arbitrale e procedimenti dinanzi all’autorità giudiziaria tanto da poter dar vita ad una pericolosa osmosi tra l’arbitrato e il procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria” (v. Associazione Nazionale Magistrati, Osservazioni su d.l. 132 per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile, 18 settembre 2014, par. 1).
Tale valutazione negativa non può che essere condivisa e le ragioni di tale giudizio meritano un approfondimento.


2. Una premessa appare d’obbligo. Come rilevato di recente dal Consiglio Superiore della Magistratura  (v. parere in data 9 ottobre 2014 sul d.l. 12 settembre 2014 n. 132, par. 2 ), deve esprimersi un giudizio positivo sulla scelta di fondo del legislatore di favorire il ricorso a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, al fine di ridurre il contenzioso civile.
Tuttavia le prospettive riformatrici volte a privilegiare la risoluzione negoziale delle controversie non devono determinare un contesto normativo di riferimento dal contenuto confuso, nel quale sia difficile individuare il modello di processo civile che si intende realizzare e che costituisca fonte di dubbi interpretativi e di ulteriore contenzioso, che genera a sua volta ritardi nella definizione dei processi pendenti, così da aumentare, anziché diminuire, la pesante situazione di arretrato e di durata non ragionevole che caratterizza la nostra giustizia civile.
Sotto altro profilo, non può essere taciuta la preoccupazione che il ricorso, oltre ragionevole misura, alla negoziazione privata per la risoluzione delle controversie comporti l’offuscamento della funzione giurisdizionale, che costituisce un’attività costituzionalmente necessaria a norma degli artt. 24 e 111 della Costituzione (v. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, pag. 1201 ss.; parere CSM 9 ottobre 2014, cit., par. 2).
C’è da chiedersi, in particolare, perché efficienza debba essere necessariamente sinonimo di privatizzazione; perché gli strumenti privatistici debbano collocarsi fuori e non anche dentro il concreto esercizio della funzione giurisdizionale; perché le strade delle riforme debbano passare lontano dai giudici e dalle aule di giustizia, che sono a disposizione di tutti e in cui tutti i cittadini dovrebbero in condizioni di pari dignità trovare tutela, per essere affidate agli studi professionali, dove di più potrà avere, in termini di capacità di gestire il processo, chi disporrà di maggiori risorse economiche; perché l’efficienza debba stare fuori dal processo pubblico, sembrando evidente che un’efficienza riservata a pochi e non a tutti non è la soluzione ma l’elusione del problema.


3. Le preoccupazioni espresse si attagliano significativamente alla fattispecie della translatio iudicii in sede arbitrale.
È opportuno un richiamo agli elementi della fattispecie normativa di riferimento. 
L’art. 1, comma 1, delimita l’ambito applicativo della disciplina.



  1. Deve trattarsi di cause civili dinanzi al Tribunale o in grado di appello pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legge, che non abbiano ad oggetto diritti indisponibili e che non vertano in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale;

  2. in sede di conversione del decreto legge la facoltà di translatio è stata prevista anche nelle cause vertenti su diritti che abbiano nel contratto collettivo di lavoro la propria fonte esclusiva, quando il contratto stesso abbia previsto e disciplinato la soluzione arbitrale;

  3. la causa non deve essere stata assunta in decisione;

  4. le parti, con istanza congiunta, possono richiedere, nelle suddette cause, di promuovere un procedimento arbitrale a norma delle disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile;

  5. per le controversie di valore non superiore a 50.000 euro in materia di responsabilità extracontrattuale o aventi ad oggetto pagamento di somme di denaro, nei casi in cui sia parte del giudizio la pubblica amministrazione, il consenso di questa alla richiesta di promuovere il procedimento arbitrale  avanzata dalla sola parte privata si intende in ogni caso prestato, salvo che la pubblica amministrazione esprima il dissenso scritto entro trenta giorni dalla richiesta.  


4. Non possono non cogliersi immediatamente le difficoltà applicative della disciplina delineata.
Quanto alla convenienza di passare dalla sede processuale a quella arbitrale, va rilevato che la translatio sarà possibile solo sull’accordo di tutte le parti in causa.
È ben noto che non tutte le parti in causa hanno interesse alla sollecita definizione del giudizio, specialmente quelle che prevedano un esito sfavorevole e per le quali la resistenza in giudizio costituisce uno strumento dilatorio per tentare di sottrarsi ai propri obblighi o di differirne l’adempimento.
È veramente difficile che possa verificarsi l’ipotesi che le parti, dopo aver sostenuto ingenti spese processuali o essersi impegnate in una complessa attività istruttoria, si accordino per abbandonare il processo e devolvere ad arbitri la controversia.
È ancora più inverosimile che questo accada nella fase di appello del processo, essendo evidente l’interesse della parte non soccombente, destinataria di una sentenza di primo grado a lei favorevole e provvisoriamente esecutiva, a definire in sede processuale la controversia, anziché intraprendere la procedura arbitrale.
Sullo sfondo vi è poi la concreta difficoltà di poter ipotizzare l’interesse economico delle parti, già gravate dagli oneri sostenuti nella pendenza del processo, di sottoporsi a ulteriori e ingenti  spese correlate ai costi del procedimento arbitrale.
5. Con riferimento alle difficoltà interpretative e applicative della nuova normativa, è sufficiente considerare la mancanza di disciplina, per quanto riguarda l’istanza congiunta, delle situazioni di litisconsorzio facoltativo e di cause scindibili, o di contumacia del convenuto e dell’appellato.
Assai nebulosa si rappresenta anche la disciplina dell’impugnazione  del lodo arbitrale, specialmente nel caso in cui sia intervenuto dopo una sentenza giurisdizionale di primo grado e quindi si sia inserito in un procedimento giurisdizionale, tenuto anche conto di quanto dispone il comma 3 dell’art. 1 citato, secondo il quale «il procedimento prosegue davanti agli arbitri. Restano fermi gli effetti  sostanziali e processuali prodotti dalla domanda giudiziale e il lodo ha gli stessi effetti della sentenza». Ciò malgrado che il successivo comma 4 faccia esplicito riferimento alla dichiarazione di nullità del lodo impugnato a norma dell’art. 830 c.p.c., senza peraltro che possa del tutto escludersi la possibilità di un ricorso diretto per Cassazione avverso il lodo pronunciato in sostituzione della sentenza di appello e di cui produce i medesimi effetti (v. parere Csm 9 ottobre 2014, cit., par. 2.1.).


6. Problematicità evidenti si pongono anche con riferimento ai tempi della procedura conseguente alla translatio.
La nuova disciplina regolamenta esclusivamente i tempi della translatio operata nel corso del giudizio di appello, prevedendo per la pronuncia del lodo un termine massimo di centoventi giorni dall’accettazione della nomina del collegio arbitrale (prorogabile di ulteriori trenta giorni, secondo facoltà esercitabile dagli arbitri, previo accordo tra le parti). L’inosservanza del termine suddetto comporta per le parti l’onere di riassumere il processo entro sessanta giorni, termine perentorio la cui inosservanza determina l’estinzione del giudizio, con applicazione dell’art. 338 c.p.c.
Si tratta di una scansione temporale di non breve momento, che può incidere negativamente sui tempi di ragionevole durata del processo (in particolare di quello di appello), specialmente tenendo conto dell’intervallo di tempo che potrà passare per raccogliere il consenso di tutte le parti al trasferimento del processo in sede arbitrale e ai tempi, non regolamentati, ma non sicuramente di rapido decorso, per la disamina da parte del giudice della sussistenza delle condizioni previste dal comma 1 dell’art. 1, nonché per la trasmissione del fascicolo da parte del giudice al presidente del Consiglio dell’ordine competente e per la nomina degli arbitri, che dovrà essere effettuata o dalle parti concordemente o dal presidente del Consiglio dell’ordine.
Nessun termine è invece previsto per la definizione del procedimento arbitrale promosso nel giudizio di primo grado, in chiara contraddizione con l’esigenza di ragionevole durata, tenuto anche conto che, in caso di omessa pronuncia del lodo, il processo potrebbe comunque essere riassunto (v. parere Csm 9 ottobre 2014, cit., par. 2.1.).


Parimenti in contraddizione con l’esigenza di ragionevole durata si pone la disciplina conseguente alla pronuncia di nullità del lodo, prevedendosi la riassunzione del processo entro sessanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di nullità, quindi anche a distanza di qualche anno, qualora la sentenza di nullità sia gravata di ricorso per Cassazione.

Autore
Stefano Schirò
Componente del Comitato Direttivo Centrale dell’ANM