Nella fase attuale di sviluppo del nostro ordinamento civile e costituzionale, la capacità del diritto di famiglia di fornire risposte univoche e adeguate circa il riconoscimento dei diritti degli individui appare seriamente in dubbio.
Contribuiscono a determinare questa difficoltà i rapidi mutamenti della coscienza sociale, l’emergere di nuovi modelli familiari, i progressi della scienza (si pensi a quelli riguardanti le tecniche di riproduzione assistita), l’evoluzione di modelli religiosi e culturali di riferimento (si pensi al recente dibattito svoltosi in seno al Sinodo dei Vescovi e al confronto con istituti giuridici propri di diversi ordinamenti) nonché la necessaria integrazione delle fonti nazionali con quelle sovranazionali (trattati europei e giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani).
In simili circostanze un certo scarto tra le norme positive e il diritto vivente appare comprensibile e fisiologico: l’impressione è, tuttavia, che tale scarto, anche per la sostanziale irresolutezza del legislatore, stia raggiungendo un livello tale da recare obiettive incertezze circa le regole applicabili al caso concreto.
L’opera di interpretazione giurisprudenziale è chiamata così a esplicarsi nella sua massima latitudine (con conseguenti polemiche politiche circa una pretesa invadenza dei giudici che verrebbero a compiere scelte rimesse al legislatore: si pensi alle polemiche seguite alla sentenza della Corte di Cassazione n. 4184 del 2012 circa la qualificazione giuridica del matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso); si assiste nel contempo ad aspri contrasti tra diverse articolazioni dello Stato (si consideri lo scontro, salito alle cronache degli ultimi tempi, tra il Sindaco di Roma, che ha trascritto con i suoi Uffici sedici matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero, e il Ministro dell’Interno che ha ribadito ai Prefetti l’indicazione di annullare dette trascrizioni); si pongono interrogativi di rilievo circa la disciplina applicabile alla procreazione medicalmente assistita e ai connessi diritti di rilievo costituzionale (si consideri la vicenda susseguente alla declaratoria di incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa).
Nel tratteggiare le nuove prospettive del diritto di famiglia, sia pure nel breve volgere del presente contributo, non ci si può, allora, sottrarre dal restituire il senso e le ragioni della descritta complessità e dall’interrogarsi circa le iniziative del legislatore onde verificare la concretezza delle possibili soluzioni.
Nel diritto della filiazione è intervenuta una delle pochissime riforme organiche e di ampio respiro adottate negli ultimi decenni in materia di diritto di famiglia: la legge 219 del 2012, con il relativo decreto di attuazione n. 154 del 2013, ha recato un mutamento delle regole sostanziali dettate dal codice civile, una svolta ampia e attesa da decenni. È stato unificato lo stato giuridico della filiazione con la piena parificazione di figli nati fuori del matrimonio e dei figli nati nel matrimonio. Sul piano processuale la riforma è intervenuta sul riparto di competenze tra Tribunale ordinario e Tribunale per i minorenni con soluzioni tecniche che hanno dato luogo a perduranti incertezze interpretative e che, in ogni caso, paiono preludere a successive modifiche ordinamentali che saranno di seguito approfondite.
Con riguardo al regime patrimoniale della famiglia, da più parti in dottrina si sollecita una riforma che valga ad adeguare gli istituti matrimoniali alla nuova realtà sociale ed economica (che da tempo non rispecchia più l’antica divisione dei ruoli familiari tra marito e moglie con conseguente sostanziale dipendenza economica della moglie): la drammatica crisi economica che negli ultimi anni ha contribuito a modificare il tessuto sociale italiano ben potrebbe indurre a una riflessione sul significato attuale di concetti quali il mantenimento, il tenore di vita familiare, la solidarietà post-matrimoniale. Una diversa impostazione degli istituti giuridico-patrimoniali tipici della famiglia fondata sul matrimonio potrebbe valere a ridurre la prospettiva prettamente patrimoniale che genera, nella maggior parte dei casi, il conflitto nella crisi della famiglia.
Ma, in senso più generale, è la regolamentazione della crisi coniugale che mostra diversi tratti obsoleti e insoddisfacenti.
Al fine di sciogliere il vincolo matrimoniale persiste nel nostro ordinamento la necessità di ottenere in via successiva la separazione e il divorzio: si tratta di istituti che, come dimostra la consolidata esperienza nei Tribunali, sono ormai largamente sovrapponibili quanto alla disciplina e agli effetti concreti, tanto da rendere di dubbia utilità la loro contemporanea presenza: la regolamentazione della crisi coniugale che ne consegue vale, in tutti casi, a prolungare i tempi per la definizione delle questioni di stato e, in molti casi, a mantenere vivo il conflitto personale e patrimoniale tra le parti. In quasi tutti gli ordinamenti europei esiste la possibilità di sciogliere in via diretta il matrimonio ovvero di scegliere, in via alternativa, tra separazione e divorzio, a dimostrazione del fatto che quella mantenuta dal nostro diritto di famiglia è una scelta tutt’altro che obbligata e per molti versi superata da diversi modelli che hanno dato buona prova.
Con la necessità di attendere tre anni tra la separazione e il divorzio, persiste l’istituto del tentativo di conciliazione in sede presidenziale (la pratica giurisdizionale si è incaricata di svelarne la sostanziale inutilità), persiste l’istituto dell’addebito e con esso i residui di una concezione pubblicistica e paternalistica delle norme codicistiche che nel sistema originario doveva valere a tutelare il nucleo familiare e che, tuttavia, non si giustifica più nell’ordinamento attuale, nel quale la Corte costituzionale ha affermato che non esistono diritti della famiglia in quanto tale ma diritti dei singoli individui da esplicarsi nell’ambito della famiglia.
La consapevolezza circa tali difetti del sistema, nel dibattito dottrinale così come in quello svolto in sede parlamentare, è massima ma manca ancora un intervento coerente e generale. Il Governo e il Parlamento si muovono in questa materia secondo prospettive del tutto parziali e comunque contrastanti.
Negli ultimi anni le Camere si sono a lungo adoperate per l’approvazione del disegno di legge sul divorzio breve. Si trattava di un progetto di riforma che, limitandosi nella sostanza a ridurre il termine di proposizione della domanda di divorzio senza intervenire sulle criticità della disciplina della crisi coniugale come sopra descritte, era da valutare certamente come parziale e non risolutivo (soprattutto in caso di disaccordo delle parti) e che, tuttavia, offriva una risposta innovativa con una significativa riduzione dei tempi per le crisi coniugali gestite in via consensuale. Dopo un lungo esame presso la Commissione giustizia della Camera, il disegno di legge è stato approvato dall’Aula nell’estate del 2014 in ragione di un’ampia convergenza delle forze parlamentari e di seguito trasmesso al Senato dove ci si attendeva una celere approvazione (se non altro perché prima dell’esame della Camera si era dovuto addirittura trovare un accordo tra i Presidenti dei due rami del Parlamento su chi dovesse affrontare per primo il tema, visto che analoghi disegni di legge pendevano in entrambe le sedi in fase di esame già avanzato). L’iter di approvazione del disegno di legge è stato, invece, sospeso al Senato perché il Governo ha preannunciato una sua iniziativa sul tema, iniziativa legislativa che, tuttavia, non si è ancora manifestata.
Il Governo è parallelamente intervenuto nella materia della crisi coniugale con gli articoli 6 e 12 del decreto legge n. 132 del 2014. La novella consentirà ai coniugi di stipulare accordi di separazione, di cessazione degli effetti civili e di scioglimento del matrimonio a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero innanzi al Sindaco, quale ufficiale dello stato civile. La riforma ha il dichiarato fine di ridurre il carico di lavoro dei Tribunali; gli effetti deflattivi saranno, tuttavia, piuttosto limitati perché le nuove disposizioni, rimesse a una facoltà delle parti, non troveranno comunque applicazione in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti.
Il Governo ha, dunque, puntato su una parziale degiurisdizionalizzazione delle procedure mentre il Parlamento perseguiva una decisa riduzione del tempo necessario per giungere al divorzio: appare, però, evidente come il processo di famiglia che abbia già subito interventi stratificati nel tempo e rispondenti a logiche diverse e come questa differenza di prospettive non giovi all’individuazione e alla soluzione dei nodi critici. Ad ogni modo il Governo – con la citata sospensione dell’esame parlamentare del disegno di legge sul divorzio breve – ha avocato a sè l’iniziativa legislativa sull’argomento rivendicando il suo intervento come prioritario: il tempo consentirà di valutare se tale decisione prelude a una proposta di riforma organica ovvero se risponde a esigenze meramente contingenti.
Per far sentire la propria voce al centro del dibattito mediatico, ma ancora senza esercitare il proprio potere di iniziativa legislativa, il Governo ha annunciato una legge che valga a disciplinare le unioni civili, anche tra persone dello stesso sesso.
Da tempo si ragiona circa una disciplina positiva delle unioni di fatto sia per quelle tra persone di sesso diverso sia per quelle tra persone dello stesso sesso. Per le unioni eterosessuali l’ordinamento riconosce l’alternativa del matrimonio e il legislatore non ha mai sentito la necessità di intervenire in via normativa, rimanendo da tutelare la libertà delle parti di mantenere il rapporto in uno stato pregiuridico. Per le unioni tra persone dello stesso sesso l’alternativa del matrimonio in Italia non è praticabile perché l’istituto presuppone la diversità di sesso dei nubendi e, pertanto, vi è un destino di irrilevanza giuridica non altrimenti superabile, con conseguente possibile negazione dei diritti connessi.
Abbiamo innanzi segnalato come il Sindaco di Roma, al dichiarato fine di dare una risposta di tutela dei diritti civili dei soggetti coinvolti, abbia preso a trascrivere i matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero e di come si sia sviluppato un grave contrasto con l’Amministrazione dell’Interno che ha annullato i relativi atti. In proposito va rilevato come la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4184 del 2012 abbia confermato la legittimità del rifiuto di trascrizione da parte dell’ufficiale di stato civile del matrimonio contratto all’estero tra cittadini italiani dello stesso sesso. La sentenza in questione ha, tuttavia, innovato l’orientamento precedente e ha affermato che detto matrimonio non è inesistente ma inidoneo a produrre effetti giuridici per non conformità al modello legale di matrimonio come disciplinato dal nostro ordinamento. La Corte di legittimità ha, in tale prospettiva, sottolineato come ai sensi dell’articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, come evolutivamente interpretato dalla Corte di Strasburgo (sentenza 24.6.2010, Schalk e Kopf c. Austria), la diversità di sesso dei nubendi non costituisca il presupposto naturalistico di esistenza del matrimonio ma solo il frutto di una scelta rimessa ai diversi ordinamenti nazionali dei Paesi comunitari, tanto che diversi Paesi europei hanno disciplinato il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Nel nostro ordinamento, alla luce della sentenza citata della Corte di Cassazione e della pronuncia n. 138 del 2010 della Corte costituzionale, il diritto al matrimonio per due persone dello stesso sesso non è garantito ma una scelta in tal senso del legislatore non sarebbe in ogni caso preclusa alla luce del descritto quadro normativo comunitario né sarebbe impedita dalla formulazione dell’articolo 29 della Costituzione.
Ferma la ricostruzione appena compiuta, vi è da registrare come il dibattito sulla questione lasci emergere una sostanziale apertura delle forze politiche maggiormente rappresentate in Parlamento alla tutela dei diritti delle coppie omosessuali secondo il modello delle unioni civili. I leader delle principali forze politiche si sono espressi di recente per la percorribilità del modello tedesco.
In Germania è in vigore dal 1° agosto 2001 la legge del 16 febbraio 2001, Gesetz über die Eingetragene Lebenspartnerschaft, che ha introdotto nell'ordinamento tedesco l'istituto giuridico della convivenza registrata tra due persone dello stesso sesso. La convivenza registrata non è equiparata all'istituto matrimoniale, pur prevedendo, a favore dei conviventi registrati, una serie di diritti simili a quelli nascenti in capo ai coniugi dal matrimonio. Per costituire una convivenza registrata è richiesto che i partner ne facciano dichiarazione reciprocamente, personalmente e contemporaneamente, davanti all'Autorità competente. Le parti possono scegliere di adottare un cognome comune; hanno diritto a un adeguato soccorso alimentare anche dopo la separazione; hanno diritto alla pensione di reversibilità (a seguito di una riforma del 2004) nonché ai diritti successori. Non è riconosciuto il diritto di adozione congiunta ma con una legge modificativa è stata riconosciuta la possibilità di adozione dei figli del convivente.
I conviventi possono richiedere in ogni momento lo scioglimento della convivenza, tuttavia la legge richiede un periodo di riflessione (da uno a tre anni) prima della pronuncia definitiva.
Nel dibattito parlamentare italiano si segnala in argomento l’esame congiunto dei disegni di legge S.239, S.314, S.14, S.909, S.1211, S.1231, S.1360, S.1316: il testo base è stato redatto dalla relatrice senatrice Cirinnà all’esito di un faticoso confronto parlamentare. Come innanzi rilevato, il Governo, e per esso il Presidente del Consiglio, ha preannunciato un intervento organico di riforma su questa delicata materia, intervento che prenderebbe le mosse dal modello tedesco e verrebbe presentato al Senato all’inizio del prossimo anno.
I tempi sembrano dunque maturi per una disciplina sull’argomento, ma allo stato non appare possibile decifrarne i limiti e i contenuti: occorrerà verificare se il legislatore sarà in grado di compiere in tempi ragionevoli l’approfondimento della materia necessario a raggiungere la sintesi politica e a formulare un coerente disegno di legge.
Un’altra materia meritevole di approfondimento in questa disamina delle nuove prospettive del diritto di famiglia è quella della procreazione medicalmente assistita e in particolare quello della fecondazione eterologa. Anche in questo ambito il quadro ordinamentale si presenta come estremamente complesso e con recenti e importanti novità.
Come è noto la legge 140 del 2004 ha disciplinato in modo organico la procreazione medicalmente assistita vietando espressamente, con l’articolo 4, comma 3, il ricorso a tecniche di fecondazione di tipo eterologo.
La recentissima sentenza n. 162 del 2014 ha dichiarato l’incostituzionalità di detta preclusione. La pronuncia ha preso le mosse dalla considerazione che il divieto sancito dalla legge 40 valeva a incidere negativamente sul diritto della coppia sterile a formare una famiglia con figli e sul diritto alla salute psichica degli individui. Di qui la necessità di effettuare il bilanciamento con gli altri diritti costituzionalmente garantiti in gioco, richiamandosi l’orientamento della Corte secondo cui gli atti dispositivi del corpo sono consentiti se diretti alla tutela della salute e se non ledono altri diritti di primario rilievo costituzionale. L’interesse da porre in bilanciamento è il diritto del nascituro alla salute e alla paternità biologica. La Corte ha condotto una disamina dei principi legislativi già vigenti nell’ordinamento perché enunciati dalla stessa legge n. 40 in via generale e ne ha tratto la conclusione che i diritti del nascituro siano in sostanza già tutelabili in ragione delle regole dettate in origine per la sola fecondazione omologa ovvero per la fecondazione eterologa delle coppie che vi ricorrevano all’estero.
La Corte delinea con chiarezza il quadro normativo emergente dalla declaratoria di incostituzionalità ed esclude la ricorrenza di incolmabili vuoti normativi: il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità (art. 1, comma 2); sono tutelati gli embrioni e sono escluse pratiche eugenetiche (artt. 13 e 14); la fecondazione eterologa va in ogni caso eseguita in strutture operanti sotto rigorosi controlli della autorità e nell’osservanza dei protocolli elaborati dagli organismi specializzati a ciò deputati (artt. 10 e 11) e secondo le linee guida elaborate dal Ministero della salute (art. 7); i requisiti soggettivi per l’accesso alla fecondazione rimangono quelli indicati dall’art. 3, comma 1, e resta ferma anche la disciplina del consenso ex articolo 6; lo stato giuridico del figlio nato da fecondazione eterologa è regolato dall’articolo 8 della legge e dalla nuova versione dell’articolo 231 del codice civile; risulta confermato anche il divieto di disconoscimento e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e la mancanza di rapporti giuridici tra genitore biologico e figlio.
La Corte ha concluso affermando che il divieto di fecondazione eterologa è idoneo a ledere i diritti costituzionalmente garantiti delle coppie afflitte dalle più gravi patologie riproduttive senza che ciò sia necessario per tutelare i principali diritti del nascituro, già garantiti dai principi legislativi vigenti; il divieto preclude l’accesso alla tecnica solo alle coppie che non possono recarsi all’estero con conseguente violazione del principio di uguaglianza. Di qui l’incostituzionalità dell’articolo 4, comma 3, della legge.
La Corte costituzionale ha, infine, escluso che il principio del divieto di contatti tra il donatore e il soggetto nato da fecondazione eterologa sia intangibile e ha rimesso la disciplina dell’anonimato del donatore al legislatore. Già nel caso dell’adozione l’ordinamento conosce ipotesi di deroga al principio del divieto di rapporti tra i genitori biologici e il figlio adottato. La questione dell’ampliamento delle ipotesi di deroga al principio del divieto è tutt’ora all’esame della Commissione giustizia della Camera che sta conducendo l’esame di alcuni disegni di legge sull’argomento del diritto alle origini biologiche.
Anche con riguardo alla fecondazione eterologa il Governo ha preannunciato, nell’immediatezza della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, un’iniziativa legislativa: l’iniziativa legislativa è stata presentata – in contrasto con le conclusioni della sentenza della Corte costituzionale - come necessaria per consentire l’utilizzazione della tecnica, per regolare un fenomeno altrimenti rimesso alle più varie soluzioni ipotizzabili nell’ambito del servizio sanitario gestito a livello regionale. Il testo di un decreto legge è stato presentato in Consiglio dei ministri: il decreto era diretto a istituire un registro nazionale per la tracciabilità del rapporto tra donatore e nato, ribadiva il divieto di trattamenti eugenetici dell’embrione, affermava il principio di anonimato del donatore e la sua deroga esclusivamente per esigenza di salute del nato; introduceva un limite massimo alle nascite da un medesimo donatore e stabiliva limiti di età per i donatori.
Il decreto non è stato approvato dal Consiglio dei ministri, il Governo ha rinunciato all’iniziativa legislativa e ha rimesso la questione al dibattito parlamentare; l’esercizio della fecondazione eterologa non appare, comunque, precluso prima dell’eventuale intervento legislativo e la tecnica è già utilizzata in alcune regioni italiane. Nel quadro giuridico già offerto dalla legge n. 40 e dai principi affermati dalla sentenza della Corte costituzionale, la prospettiva più concretamente perseguibile appare quella di disciplinare gli aspetti residui con le linee guida del Ministero della salute da emanarsi nella forma di circolare.
Nuove prospettive interessano, infine, il diritto di famiglia anche nella materia ordinamentale.
La riforma della filiazione, con la legge 219 del 2012, ha recato una sostanziale modifica al riparto di competenza tra il Tribunale per i minorenni e il Tribunale ordinario: è stata trasferita al Tribunale ordinario la competenza in materia di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, per una elementare esigenza di parificazione, anche processuale, tra figli nati nel matrimonio e figli nati da genitori non coniugati. La novella ha modificato l’art. 38 delle disposizioni attuative del codice civile con una disposizione di infelice formulazione che lascia aperti numerosi dubbi esegetici, soprattutto con riguardo alla competenza circa i procedimenti de potestate, e che in ogni caso ha ridotto in modo significativo le competenze civili dei Tribunali per i minorenni senza operare le conseguenti compensazioni di organici dei magistrati addetti.
Si è, pertanto, riproposta con ogni attualità la questione della collocazione ordinamentale dei giudici per i minori, questione che da vari decenni vede susseguirsi disegni di legge in Parlamento e che ha impegnato in passato diverse e autorevoli commissioni legislative di nomina governativa senza mai trovare una definizione. La questione è legata alla definizione di un nuovo organo giudiziario presso il quale concentrare la tutela civile del minore, i procedimenti sulla crisi familiare, i procedimenti riguardanti i minori attualmente di competenza del giudice tutelare, al fine di superare frammentazione delle competenze che caratterizza il sistema attuale.
Circa la configurazione dell’ufficio giudiziario in questione si contrappongono da tempo due diverse impostazioni: da una parte quella riconducibile all’esperienza del giudice specializzato nella tutela dei minori. In questa prospettiva si immagina un Tribunale per la persona, per i minorenni e per la famiglia: caratteristiche imprescindibili di questo Tribunale sarebbero la specializzazione dei giudici, addetti in via esclusiva alle funzioni, il carattere multidisciplinare dell’approccio garantito da giudici onorari specialisti di altri saperi a comporre i collegi e, infine, l’unitarietà della tutela del minore in sede civile e in sede penale. Si tratta, in altre parole, di riprodurre i principali caratteri dell’attuale Tribunale per i minorenni secondo un’organizzazione del giudice non più su base distrettuale ma circondariale.
La seconda impostazione immagina il nuovo ufficio come una sezione specializzata del Tribunale ordinario, capace di trattare non solo le materie riguardanti la tutela dei minori, ma la crisi familiare, lo stato e la capacità delle persone e le altre controversie in tema di relazioni familiari già di competenza del Tribunale ordinario, all’occorrenza anche i diritti della personalità e i diritti connessi al fenomeno dell’immigrazione. Si immagina un giudice che, pur maturando al riguardo competenze specialistiche, non sia destinato in via esclusiva alle funzioni di tutela dei minori, un giudice che garantisca la tutela dei diritti di difesa delle parti del processo salvaguardando il principio del contradditorio, un intervento giurisdizionale caratterizzato da piena terzietà e diretto a risolvere rapidamente i conflitti piuttosto che a interventi di natura amministrativa, un giudice togato che – solo ove necessario - si avvalga di competenze specialistiche nelle forme della consulenza operando secondo valutazioni giuridiche piuttosto che multidisciplinari.
Anche in questa materia l’attuale Governo non ha mancato di annunciare una propria iniziativa legislativa. Durante la scorsa estate il Guardasigilli ha dapprima diffuso, in incontri preliminari con gli operatori di settore, un documento recante linee guida che presupponeva l’adesione alla prima delle due impostazioni descritte. Nel primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva è stato, invece, approvato un disegno di legge delega al Governo per l’istituzione del Tribunale della famiglia e della persona, con la realizzazione presso tutte le sedi di Tribunale ordinario delle sezioni specializzate per la famiglia e la persona: piena adesione, dunque, alla seconda delle soluzioni innanzi descritte. Il disegno di legge, tuttavia, dopo due mesi dalla sua approvazione non risulta ancora presentato alle Camere per l’avvio dell’iter legislativo: è lecito, allora, dubitare della concretezza dell’iniziativa legislativa del Governo.
Ci sono, ad ogni modo, alcuni nodi critici del sistema che occorrerebbe affrontare in via preliminare e dei quali il disegno di legge approvato dal Governo omette di farsi carico: come si è avuto modo di accennare l’elevato livello del contenzioso in materia familiare è determinato da regole di diritto sostanziale circa la crisi della famiglia fondata sul matrimonio che per molti versi appaiono superate dalla coscienza sociale e idonee a creare il conflitto piuttosto che a ridurlo; gli uffici giudiziari che trattano la materia della famiglia ricevono un flusso di controversie sproporzionato rispetto all’organico dei magistrati a tanto destinati, gli stessi uffici giudiziari sono afflitti da una gravissima carenza di personale amministrativo che influisce ormai sull’efficacia della risposta giudiziaria; persiste la vigenza di una pluralità di riti diversi riguardanti la tutela dei minori e la crisi della famiglia, riti in taluni casi inutilmente sovrabbondanti e in altri casi inidonei, perché troppo scarni, a garantire il contraddittorio e la tutela dei diritti.
Sotto il profilo ordinamentale non vi è, allora, necessità di una riforma ad ogni costo: la riforma annunciata in questa delicata materia potrà, infatti, essere valutata positivamente solo ove si ravvisi chiarezza di idee circa il nuovo assetto da perseguire, circa i miglioramenti da raggiungere in termini di tutela dei diritti dei cittadini e circa le risorse umane e materiali da impiegare allo scopo.