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Considerazioni sparse sulla prescrizione dei reati

di Carlo Citterio - 9 gennaio 2015

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  1. La prescrizione del reato è un istituto del diritto penale sostanziale.


Tradizionalmente è spiegata con il venir meno dell’interesse dello Stato alla pretesa punitiva nei confronti dell’autore di un determinato reato, come conseguenza del trascorrere del tempo. Da un lato viene appunto a mancare l’interesse dello Stato per la punizione, dall’altro sorge il “diritto all’oblio” per chi quella punizione formalmente dovrebbe subire.
La relazione è quindi tra momento di commissione del reato e attualità dell’interesse punitivo.
Dal punto di vista sistematico, allora, la prescrizione per sé non ha alcunché a vedere con le tematiche processuali e, più in generale, con la “giurisdizione”. Quando l’art. 111, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 2/1999, prevede che la legge assicuri la ragionevole durata del processo, ha riguardo alla (sola) disciplina della giurisdizione.
Che prescrizione del reato e ragionevole durata del processo siano ambiti diversi lo ricorda specificamente, tra le altre, Cass. Sez. 6, sent. n. 39284/2013.
Affrontando la questione se dovesse o meno trovare applicazione la norma del codice di autoregolamentazione che, nel caso di astensione dalle udienze, prevede la trattazione se la prescrizione maturi, per i giudizi in Cassazione, nei successivi 90 giorni, quando in realtà la consolidata interpretazione giurisprudenziale afferma che il rinvio dell’udienza, e del processo, per l’astensione del difensore “sterilizza” comunque il decorso della prescrizione per tutto il tempo di durata del rinvio (Sez. 5, sent. 18071/2010), sicché quell’eccezione poteva non trovare più spiegazione congrua, la Corte Suprema risponde positivamente. Spiega che «"Ragionevole durata del processo" e "termine massimo di prescrizione del reato per cui si procede" sono locuzioni che esprimono valori giuridici diversi, la prima avendo riguardo in particolare al tempo considerato congruo per giungere a sentenza definitiva, così 'chiudendo' (definendo) la pendenza e le sue articolate implicazioni sulla vita dei singoli interessati (imputati, persone offese, soggetti danneggiati) e sulla società intera, la seconda individuando il tempo oltre il quale viene meno l'interesse dello Stato alla punizione del singolo reato. Trova pertanto perfetta razionalità e sistematicità una disciplina, come quella richiamata, che in definitiva sceglie di non esercitare un diritto collettivo pur astrattamente in ipotesi invocabile, quando tale esercizio dilaterebbe ulteriormente i tempi del processo (giunto ormai, a seguito dell'interferenza della disciplina sostanziale della prescrizione, alla sua conclusione), ma per ragioni non afferenti i diritti di difesa concretamente rilevanti nello specifico procedimento».
La prescrizione del reato va quindi posta in relazione alla volontà dello Stato di procedere o meno per un determinato reato, perseguendone l’autore (presunto tale fino alla sentenza definitiva: ma, disciplina l’art. 161 c.p., «la sospensione e l’interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il fatto», sicché l’eventuale “allungamento” dei tempi di prescrizione opera anche nei confronti di chi dovesse essere individuato come responsabile anche in un momento successivo, a seguito di assoluzioni per estraneità di altri).
La ragionevole durata del processo riguarda invece i tempi della giurisdizione, dal momento in cui la volontà di procedere/perseguire è stata manifestata dallo Stato, attraverso i suoi organi competenti, al momento della decisione definitiva.
All’evidenza, pertanto, si tratta di due istituti/ambiti del tutto differenti.
Non solo. Ma quando si tenta di individuare il concreto contenuto del concetto di ragionevole durata del processo, introdotto nell’art. 111 Cost., e in particolare di quantificare i tempi (dell’intero iter fino alla sentenza definitiva, delle singole fasi), occorrerebbe aver chiaro che del tutto ingiustificata è l’ulteriore sovrapposizione e confusione tra la previsione costituzionale della ragionevole durata del processo e la quantificazione operata dalla giurisprudenza europea e, di conseguenza, dalla nostra legge nazionale n. 89/2001 e successive modifiche (c.d. Pinto). Per l’assorbente ragione (sempre ignorata, anche strumentalmente, da chi alla giurisprudenza europea e alla legge Pinto fa esclusivo, e comodo, riferimento) che i parametri considerati dai giudici europei sono quelli medi dei diversi sistemi europei, nessuno dei quali prevede tre gradi di giurisdizione attivabili a discrezionale volontà dell’interessato, senza nessuna conseguenza negativa rispetto alla prima decisione, e mentre la prescrizione del reato continua a decorrere.
Attribuire alla prescrizione (istituto sostanziale) funzioni (anche) di regolamentazione della durata del processo è allora scorretto, sul piano sistematico.
Del resto, basterebbe riflettere su come sia all’evidenza irrazionale attribuire alla discrezionalità del singolo interessato (come in effetti oggi avviene, mancando alcuna “sterilizzazione del tempo del processo” al fine della prescrizione del reato) la possibilità di posticipare i tempi di trattazione del procedimento fino al momento in cui maturi il suo diritto all’oblio ovvero in cui egli “sia divenuto persona diversa” da quella che commise il fatto per il quale si sta procedendo. Va in proposito ben colta l’assurdità logico-sistematica del contesto normativo attuale, rispetto ai presupposti che giustificano l’istituto della prescrizione: dal momento in cui viene esercitata l’azione penale (manifestazione per eccellenza della pretesa punitiva dello Stato), il continuo decorso della prescrizione (nell’ambito del tetto massimo del quarto oltre il tempo corrispondente al massimo della pena, tetto massimo che “strozza” e cancella le possibili ulteriori cause di interruzione) fa sì che il legittimo pieno esercizio dei propri diritti di difesa concorra a raggiungere il traguardo dell’ “oblio” e del “mutamento” di persona che costituiscono le ragioni giustificatrici della rinuncia dello Stato a perseguire.
Un cortocircuito logico-sistematico di solare evidenza.
Così si ottiene infatti il davvero singolare risultato che il reato si prescrive, nonostante lo Stato abbia manifestato e stia manifestando proprio la volontà contraria: quella di perseguire quel reato e quel soggetto, alle cui discrezionali (e legittime) iniziative può invece conseguire la paralisi e la vanificazione della volontà punitiva dello Stato, pur espressamente e inequivocamente manifestata!
In altre parole, la prescrizione del reato viene a operare non perché lo Stato non ha più interesse alla punizione, ma perché la volontà punitiva dello Stato viene paralizzata dal trascorrere del tempo, cui concorre anche l’esercizio dei legittimi diritti di difesa del soggetto nei cui confronti lo Stato agisce: ma questo nulla ha a che vedere con le “ragioni” sottese all’istituto della prescrizione sostanziale quale causa di estinzione del reato; anzi, le nega clamorosamente.
Davvero una singolare sovrapposizione e interferenza di plurimi aspetti (prescrizione come rinuncia spontanea dello Stato alla punizione per un determinato reato a seguito del venir meno del relativo interesse; tempo ragionevole di trattazione del processo; esercizio dei diritti di difesa nel processo), la cui malgestita contaminazione tuttavia non dovrebbe, non deve, impedirne e pregiudicarne l’autonoma lettura.


2. Dal punto di vista sistematico, quindi, il venir meno definitivo dell’operare della prescrizione sostanziale del reato al momento dell’esercizio dell’azione penale sarebbe la soluzione più congrua all’inquadramento sistematico della prescrizione come causa di estinzione del reato disciplinata dal codice penale.
In ogni caso, tutto il tempo di durata del processo conseguente all’esercizio dell’azione penale per quel reato dovrebbe essere necessariamente “sterilizzato”. Non solo, infatti, non vi è alcuna controindicazione sistematica alla sospensione della prescrizione del reato per tutto il tempo di trattazione del processo a partire dall’esercizio dell’azione penale ma, almeno la sospensione, appare soluzione necessitata perché unica coerente alla ragione propria dell’istituto. Con l’esercizio dell’azione penale lo Stato attraverso gli organi a ciò deputati manifesta la specifica volontà punitiva rispetto a un determinato reato. Se tale esercizio interviene utilmente prima del decorso dei termini di prescrizione previsti in via generale, solo un’eventuale ritrattazione/revoca dell’azione penale potrebbe comportare la prosecuzione dei termini residui di prescrizione. Comunque, la prescrizione non dovrebbe mai poter decorrere a processo in corso, posto che proprio la pendenza del processo attesta per sé l’attualità dell’intento “persecutorio” dello Stato.
La sospensione dovrebbe quindi operare per il solo fatto della pendenza del processo. Infatti, come osservato, è la pendenza in sé, quale esito del positivo esercizio dell’azione penale in atto, che risulta incompatibile con alcun venir meno di interesse da parte dello Stato: perché, semplicemente, attesta il contrario.
Sotto questo profilo deve ancora essere evidenziato come sul piano sistematico, se si ha riguardo alla ragione della prescrizione come istituto di diritto sostanziale, le soluzioni che privilegiano le sentenze intermedie di condanna quali uniche possibili cause dell’eventuale protrarsi della sospensione siano frutto di mera suggestione, che confonde piani diversi.
Innanzitutto, la “fondatezza” della pretesa punitiva non è un presupposto sistematico della valenza della pretesa punitiva ai fini “dell’oblio”, né al momento iniziale dell’esercizio dell’azione penale né durante il periodo in cui la parte pubblica (unico soggetto che nel nostro ordinamento è deputato a manifestare inizialmente tale volontà e a coltivarla successivamente) la coltiva efficacemente (anche con l’impugnazione delle decisioni provvisorie sfavorevoli). È utile sul punto richiamare la sentenza n. 15933 del 2012, con cui le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno spiegato perché anche la sentenza di assoluzione era strutturalmente idonea a determinare la “pendenza del grado d’appello” e, quindi, ostava all’applicazione retroattiva dei termini di prescrizione più favorevoli introdotti dalla c.d. legge Cirielli. Nella sua composizione più autorevole la Corte di Cassazione ha chiarito che quando si ha riguardo all’individuazione di un momento del procedimento, il suo specifico contingente contenuto sotto l’aspetto della fondatezza dell’accusa va considerato irrilevante. Del resto, si dovrebbe convenire che, per quanto attiene all’attualità e alla costanza della pretesa punitiva dello Stato, ciò che solo rileva è la sentenza conclusiva, quella che determina il giudicato, e non già l’esito delle singole tappe del percorso processuale, esito che, in presenza di un sistema che consente alla parte pubblica di contestare il risultato contingente sfavorevole (così riaffermando proprio, suo tramite e specificamente, la pretesa punitiva dello Stato), nulla ha a che vedere con la volontà di procedere.
In altre parole. Sotto il profilo della rispondenza dell’esito finale alla manifestata volontà punitiva dello Stato non c’è alcuna differenza tra la sentenza di condanna che intervenga dopo una successione di sentenze tutte di condanna e quella che segua invece temporanee decisioni di assoluzione. Ed allora, se il parametro è la volontà attuale dello Stato di non obliare affatto e di sanzionare l’autore quale è al momento dell’esercizio dell’azione penale, una disciplina della sospensione/sterilizzazione di fasi processuali che desse rilievo determinante alle decisioni contingenti risulterebbe palesemente irrazionale (perché ciò che conta è solo la decisione finale), e, come tale, porrebbe serie questioni di legittimità costituzionale.
Sul punto, merita di essere segnalata un’altra davvero grave conseguenza delle prospettazioni che àncorano l’efficacia sospensiva al contenuto della decisione giurisdizionale non definitiva: attribuire alla decisione provvisoria di condanna o di assoluzione effetti immediati sulla prescrizione comporta il coinvolgimento del giudice nel concorrere a determinare o meno l’efficacia dell’attualità della volontà punitiva dello Stato. In altri termini, si coinvolge il giudice in una prospettiva che è tipica e propria solo della parte pubblica, con grave pregiudizio dell’indefettibile ruolo di terzietà (e con possibile turbamento delle ragioni della decisione). Quindi, una grave alterazione del ruolo del giudice rispetto alle parti e ai loro poteri, senza che, ancora una volta, alcuna esigenza sistematica lo giustifichi e, tantomeno, lo imponga.


3. Ogni approccio alla disciplina complessiva della prescrizione del reato deve necessariamente tenere in considerazione gli effetti patologici che l’attuale equilibrio normativo determina. Ad esempio, il fatto che la prescrizione continui a decorrere anche quando il processo è in corso, e specialmente nei casi in cui le fasi successive siano richieste, esercitando certo un proprio diritto, dall’interessato, e, ciò, senza alcun timore di mutamenti negativi (per il divieto di riforma in peggio: art. 597.3 c.p.p.), ha creato il fenomeno diffusissimo delle impugnazioni solo strumentali o dilatorie. In questi casi la decisione giurisdizionale viene attaccata non per la sua intrinseca obiettiva inadeguatezza, ma o per una generica aspettativa di sorte migliore o semplicemente per guadagnare tempo, allontanare il giudicato e con esso l’esecuzione della sentenza, contare – ecco il punto specifico – sul fatto che l’ingolfamento dei ruoli dei giudici delle impugnazioni possa portare alla “cancellazione” del reato proprio perché il corso senza fine della prescrizione consente di agguantarla.
La concreta disciplina della prescrizione, come istituto del diritto penale sostanziale (quanto a tempi, cause di sospensione e interruzione, tetti insuperabili), diviene pertanto la ragione che orienta la specifica condotta processuale e le scelte contingenti di molte delle parti private, alterando pesantemente il funzionamento del sistema giudiziario e la sua efficacia (che, come ripetutamente ricorda la Corte costituzionale, è in sé valore e principio costituzionalmente tutelato). Si pensi solo all’impatto evidente che un’eventuale esclusione del decorso della prescrizione dopo l’esercizio dell’azione penale avrebbe sulla scelta tra l’accesso ai riti alternativi o al dibattimento, quando fosse chiaro a tutti, e certo per tutti, che comunque si arriverà a una decisione finale che sarà sul merito del processo e non in rito. Per questo, tra l’altro, è diffusa la convinzione di alcuni che con una disciplina siffatta il sistema nel medio periodo si autoregolerebbe, rendendo solo teorico il problema, obiettivo, della durata complessiva dei processi ove la prescrizione non decorresse più anche durante il procedimento.
Può essere utile, a titolo esemplificativo della situazione in atto di sofferenza grave, il richiamo al dato statistico certo e attuale (che si evince dagli allegati alla relazione inaugurale per l’anno giudiziario 2014 del primo presidente della Corte di Cassazione) del numero di ricorsi penali nel 2013 pervenuti alla Corte di Cassazione (52.834) e del numero di quelli in quel medesimo anno definiti dalla settima sezione (introdotta dalla legge 128 del 2001 con la modifica all’art. 610 c.p.p.): si tratta dei ricorsi che già in fase di primo “spoglio” appaiono all’evidenza inammissibili e proposti al solo scopo di allontanare il tempo del giudicato e “tentare” la sorte della prescrizione: essi sono 22.216, sui complessivi 33.980 dichiarati inammissibili (comprendendo pure le pertinenti decisioni delle altre sezioni ordinarie). Invero, i numeri che precedono vanno apprezzati tenendo conto che i dati statistici si completano con l’indicazione, per il lavoro di tutta la Corte penale nell’anno 2013, di 108 magistrati in media impegnati in udienze penali e di 493 procedimenti eliminati in media a testa. Ancor più gravosa la situazione delle Corti d’appello, specialmente di medie e grandi dimensioni (che sono quelle più significative a indicare le difficoltà e il serio pericolo in atto di larga vanificazione della pretesa punitiva dello Stato, pur tempestivamente manifestata e coltivata).
Si tratta di situazione di fatto concreta, attuale e specifica, che conferma in modo eclatante come ogni valutazione astratta dei tempi “fisiologici” dei processi (in relazione a discipline di sospensione della prescrizione per tale tempo processuale fisiologico, individuato in relazione alla trattazione del singolo processo) non può che essere “inquinata”, o appunto “apparente”, se si continua a non intervenire sul contesto in cui il singolo processo si inserisce, permettendo di disincentivare le impugnazioni solo strumentali proprio all’ottenimento della prescrizione (che rimane sempre interesse di fatto e non giuridicamente tutelato in quanto tale dalla Costituzione) o comunque alla dilazione del giudicato per interessi contingenti di fatto dell’interessato (ciò, a fronte di istituti sistematici che si porrebbero invece, come visto, la preoccupazione di tutelare il diritto all’oblio e il minor impatto del trascorrere del tempo sull’evoluzione della persona).
Proprio l’attenzione all’impatto diffuso sulle prassi e sulla realtà della giurisdizione che la disciplina della prescrizione determina impone, altresì, di evidenziare che vi deve essere piena consapevolezza che il solo intervento sulla disciplina della prescrizione per sé non può essere risolutivo. Certamente un intervento intelligente e attento agli aspetti sostanziali dell’istituto, che intervenga sull’operare della prescrizione, può contribuire a vanificare efficacemente le prassi solo dilatorie (che comportano appunto aumento esponenziale di pendenze in realtà fittizie, non governabili dal sistema). Ma il legislatore deve essere consapevole della stretta e insopprimibile ampia connessione che vi è tra le norme del sistema processuale e la prescrizione dei reati: nessuna riforma della disciplina della prescrizione potrà mai essere “autosufficiente” per eliminare le patologie che tale istituto determina attualmente nel concreto svolgimento della giurisdizione penale e nelle attese di giustizia dei cittadini.
Infatti, se contestualmente, o in brevissimi tempi successivi, non si interviene anche e in particolare sul regime delle impugnazioni, ogni punto di equilibrio (tra l’interesse della collettività e il diritto del singolo) perseguito con astratte, e pur intrinsecamente plausibili, valutazioni dei tempi di durata dei processi nei diversi gradi e nelle diverse fasi rischia di essere, in concreto, solo apparente.
Il punto è essenziale.
Sia permessa una digressione esplicativa, tratta dall’esperienza nel giudizio di Cassazione. Si deve avere ben presente che l’attuale rito processuale penale prevede, anche per tutti i ricorsi originariamente all’evidenza inammissibili (del cui “peso” sul lavoro della Corte Suprema si è prima dato conto; addirittura per i ricorsi senza motivi) che sia sempre fissata udienza (pur se non partecipata), con relativo avviso alla parte e termine di trenta giorni: le incombenze concrete di gestione di questi fascicoli e il tempo di scrittura dei relativi provvedimenti assorbe (inutilmente) enormi risorse di tempo, uomini, mezzi, con spreco di denaro pubblico e, in particolare e soprattutto, distrazione di risorse umane e materiali dalla più tempestiva e qualitativamente adeguata trattazione delle impugnazioni “serie”. Basterebbero due norme: una che restituisca al giudice a quo la competenza a deliberare l’inammissibilità dell’impugnazione nei casi più eclatanti (ovviamente prevedendo il passaggio in giudicato e la contestabilità del provvedimento solo con l’incidente di esecuzione: altrimenti, paradossalmente, si sarebbe solo introdotto un passaggio in più!); l’altra che permetta alla Corte di Cassazione di provvedere de plano, anziché previa fissazione di udienza sia pure non partecipata; ciò, quantomeno per talune tipologie di manifesta infondatezza/inadeguatezza/inconsistenza del ricorso. Al tempo stesso, una minima riflessione sulle peculiarità tecniche del giudizio di legittimità e, conseguentemente, dell’atto di ricorso per Cassazione, dovrebbe comportare inevitabilmente l’esclusione dell’attualmente prevista possibilità del ricorso personale (strumento con il quale o si aggira il divieto per gli avvocati non iscritti all’albo dei cassazionisti di occuparsi anche del giudizio di legittimità – ancorché a volte con esiti di obiettivo pregio –, o si dà ingresso a davvero estemporanei “ingressi” della persona dell’imputato e delle sue prospettazioni “complessive” incoerenti ai rigorosi limiti della funzione di legittimità, o si perseguono malcelati intenti di non conformità alle discipline fiscali).


4. Qualche spunto sui testi di modifica disponibili.
La bozza del disegno di legge governativo con data 29 agosto 2014 propone un intervento francamente minimale e di modesta utilità ai fini deflattivi, che si risolve nella sospensione della prescrizione per i soli casi di sentenze intermedie di condanna, con tempi di due anni per l’appello e un anno per il giudizio di Cassazione e gli eventuali giudizi di rinvio. La sospensione decorre dal deposito delle sentenze, aggiungendosi tuttavia il tempo dalla deliberazione del dispositivo alla redazione della motivazione in tutti i casi in cui questa non sia contestuale (previsione, questa, comunque positiva, perché in qualche modo àncora il principio generale alle peculiarità del caso concreto). I periodi di sospensione sono tuttavia comunque computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere nei casi di assoluzione intermedia o annullamento con invio sul punto della responsabilità.
Non vi è alcun intervento di rivisitazione dei termini ordinari di prescrizione (compressi dalla c.d. legge Cirielli in un contesto in cui l’intervento del legislatore apparve orientato a ragioni contingenti per lo più estranee a quelle solo tecnico-sistematiche, dalle conseguenze pesantissime sui processi pendenti), né sono previste modifiche alla disciplina della prescrizione nel caso di reato continuato.
Va, in proposito, ovviamente confermata l’articolata critica sistematica, prima esposta, al rilievo dato alle sole sentenze di condanna e alla dissoluzione dell’effetto di sospensione nel caso di pronunce provvisoriamente favorevoli alla parte privata, nonostante l’impugnazione del pubblico ministero.
La proposta di legge 1174 (Colletti a altri) aumenta i tempi della prescrizione ordinaria, prevede che per il reato continuato il termine di prescrizione decorra dalla consumazione dell’ultimo reato del medesimo disegno criminoso, determina la sospensione del processo dal momento dell’assunzione della qualità di imputato ai sensi dell’art. 60 c.p.p. fino all’irrevocabilità della sentenza, anche di proscioglimento.
Questa proposta dichiaratamente mira a sterilizzare ogni condotta di tipo dilatorio, confida nell’autoregolazione del sistema e della condotta delle parti (a fronte del venir meno di ogni possibilità di mirare alla prescrizione dopo l’esercizio dell’azione penale quale soluzione alternativa all’affrontare il merito del processo), con il conseguente indirizzo verso i riti alternativi, come soluzione più favorevole, per le parti private che si trovino in condizioni di fatto dove la difesa nel merito è priva di ragionevoli prospettive positive.
La sterilizzazione del tempo del processo fino alla sentenza definitiva, a prescindere dal contenuto delle deliberazioni intermedie, certamente sul piano sistematico è particolarmente coerente con il collegamento dell’istituto della prescrizione alla mera volontà dello Stato di rinunciare alla pretesa punitiva, come argomentato nelle premesse.
La tendenziale indeterminatezza del tempo massimo per il processo appare affrontata con la “scommessa” (invero non palesemente avventata) che l’inutilità di ogni impugnazione solo strumentale restituisca le scelte delle parti alla fisiologia di un rapporto costi/benefici che abbia riguardo all’effettivo merito contingente situazione processuale.
Merita poi piena condivisione l’intervento in tema di reato continuato, perché la scelta che ha condotto all’attuale autonomia dei singoli reati (ai fini della decorrenza della prescrizione), oltre ad aver determinato rilevanti difficoltà operative (si pensi, ad esempio, al caso di alcune contestazioni in materia di sostanze stupefacenti nelle quali la tipologia delle prove rende tutt’altro che arbitraria la contestazione di una pluralità di azioni delittuose, tuttavia non immediatamente riconducibili a date e circostanze puntualmente descrivibili), in definitiva risulta sostanzialmente incoerente con il reale senso del favorevole istituto e con la configurazione stessa di un medesimo disegno criminoso che giunge a compimento solo con l’ultimo fatto/reato.


Il progetto di legge 1528 (Mazziotti Di Celso e altri) recupera parte del lavoro della c.d. Commissione Fiorella (i cui lavori sono stati obiettivamente caratterizzati dai ristrettissimi tempi tra il momento dell’incarico e la cessazione di quell’Esecutivo). Anche questo progetto rivede i termini della prescrizione e prevede la sospensione del termine di prescrizione nei soli casi di sentenze intermedie di condanna (al dichiarato fine di consentire la conclusione delle successive fasi di impugnazione). Va richiamato sul punto il rilievo già svolto in ordine all’inopportunità dell’ancorare la prescrizione alla provvisoria sentenza di sola condanna.
La previsione di una prescrizione breve sollecitatoria dell’azione del pubblico ministero pare introdurre un elemento di forte e imprevedibile impatto, riconducibile alla c.d. prescrizione del processo, in qualche modo disarmonico rispetto alla natura sostanziale dell’istituto, tanto più considerando che essendosi nella fase iniziale del procedimento parrebbe potersi addirittura verificare il caso dell’operare di tale prescrizione breve quando ancora non sono decorsi i termini della prescrizione ordinaria: il che pare davvero esito asistematico, sotto il profilo della ratio della rinuncia alla pretesa punitiva dello Stato che fonda l’istituto sostanziale. Tale rigida previsione, pur spiegata con una comprensibile e anche condivisibile esigenza (sollecitare il pubblico ministero perché non “consumi” la maggior parte del complessivo tempo di prescrizione nella sua fase di indagine), tuttavia appare da un lato poco adeguata alle peculiarità molteplici degli andamenti delle indagini, dall’altro soluzione dai richiamati rischi paradossali, oltre che non l’unica efficace allo scopo (potendosi verificare l’adeguatezza di alternative soluzioni che responsabilizzino diversamente i Procuratori della Repubblica e i singoli magistrati di tali uffici).
Va evidenziata la positiva attenzione alla necessità di un’attenta disciplina transitoria (cura che il legislatore troppe volte ha trascurato, contribuendo in maniera determinante a situazioni di grave incertezza, disparità di trattamento, vanificazione ingiustificata di precedente imponente attività della complessiva struttura giudiziaria).
La proposta di legge 2150 (Ferranti e altri) si caratterizza per l’intento di procedere innanzitutto a un’articolata analisi delle problematiche generali e della relazione tra i vari istituti.
La scelta sistematica della proposta pare essere quella della combinazione di una prescrizione “sostanziale” (che opera fino all’esercizio dell’azione penale) e (dopo tale momento) di una prescrizione “processuale” (vi è espresso richiamo nella relazione alle “finalità diverse” cui la prescrizione dovrebbe servire, in particolare, ancora, alla preoccupazione di evitare tempi irragionevolmente lunghi che conducano a condannare “persona diversa”). In concreto, dopo l’avvenuto esercizio dell’azione penale decorrerebbero termini massimi per il giudizio di primo grado, di diversa consistenza secondo il rito (a citazione diretta e speciali, monocratico, collegiale e assise), non modulati quindi in relazione alla gravità del contingente reato (aspetto positivo, posto che, effettivamente, l’impegno processuale è proporzionale alle questioni probatorie e giuridiche del singolo caso e non necessariamente all’astratta gravità del titolo di reato).
La prescrizione non decorre più dopo la sentenza di primo grado: relazione (pag. 3 prima colonna) e testo (art. 160 quarto comma) non manifestano con chiarezza se l’effetto segue anche la deliberazione di assoluzione (così potrebbe parere dal riferimento nella prima parte del comma al fatto processuale della “pronuncia della sentenza di primo grado” e dalla previsione di un ristoro per l’assolto dopo tempo irragionevole; ma la seconda parte del comma prevede, invece, la ripresa del decorso della prescrizione interrotta per il caso dell’annullamento di sentenza di condanna, aspetto che andrebbe chiarito nei suoi rapporti con le sentenze di assoluzione).
La soluzione che questa proposta di legge indica per assicurare che l’imputato non soffra le conseguenze di una “durata intollerabile del processo” (che la relazione efficacemente spiega esser realtà e concetto del tutto diverso dalla “ragionevole durata” del processo stesso) è quella di prevedere uno sconto di pena, per l’imputato condannato, e un risarcimento, per l’assolto, quando la decisione intervenga dopo due anni (per l’appello) o un anno (per la Cassazione). La soluzione non può non destare consistenti perplessità, proprio sul piano dell’adeguatezza allo scopo perseguito, di efficace e drastica riduzione delle impugnazioni strumentali.
Si impone infatti un rilievo che pare importante. Nel tentativo di rinvenire una soluzione di equilibrio tra l’irrilevanza della prescrizione dopo la prima sentenza e comunque l’assicurare tempi “non irragionevoli”, in realtà si introduce un beneficio (la riduzione di pena fino a un terzo) che per sé è idoneo a costituire ragione più che sufficiente per mantenere azioni solo dilatorie, con il serio rischio di vanificare il perseguimento dello scopo dissuasivo che l’interruzione della prescrizione dopo la prima sentenza si propone. Tanto più se, come parrebbe dalla lettera del testo proposto, la riduzione del terzo per l’appello potrebbe poi sommarsi con un ulteriore terzo per il giudizio in Cassazione.
Ciò, specialmente, per il giudizio di appello, dove il termine generalizzato di due anni appare allo stato sostanzialmente utopistico (ma anche per la Cassazione se non si interviene sull’enorme ed esponenziale già commentata crescita dei ricorsi, il termine generalizzato di un anno non risulta significativo: e si è già evidenziato che il richiamo alla giurisprudenza CEDU è non pertinente).
Andrebbe allora quantomeno esplorata la possibilità di legare riduzione di pena e risarcimento al superamento del tempo complessivo (primo grado, appello, eventualmente Cassazione) che l’articolo 160 in concreto prevede per i diversi gradi. Solo una soluzione del genere darebbe razionalità al disegno, posto che la “evoluzione della persona” tra momento della consumazione del reato e momento della condanna non si verifica nel singolo grado ma, proprio, nel complessivo tempo del processo, dopo l’esercizio dell’azione penale.
Appare opportuno comunque evidenziare anche il rilievo che la previsione di una riduzione di pena “fino a un terzo” anche per il ritardo della sentenza di Cassazione imporrebbe, allo stato della legislazione, l’annullamento con rinvio della sentenza d’appello, posto che tale riduzione è configurata come discrezionale nella concreta quantificazione: apparirebbe pertanto indispensabile attribuire la relativa competenza alla stessa Corte di Cassazione (con specifica previsione inserita nell’art. 620 c.p.p.).
Positiva, da ultimo, è l’attenzione data al compimento dei quattordici anni per la decorrenza del termine di prescrizione per reati ex art. 392.1-bis c.p.p., che questa e la precedente proposta di legge prevedono.


5.      La conclusione deve muovere da alcune delle riflessioni iniziali.
Prescrizione del reato, come istituto del diritto penale sostanziale, e ragionevole durata del processo, come principio costituzionale della giurisdizione, sono realtà del tutto diverse. L’esercizio libero e discrezionale del diritto di difesa (e le scelte connesse) costituisce un ulteriore diverso ambito e tema.
Ogni attribuzione al regime della prescrizione sostanziale di finalità proprie dell’assicurazione della ragionevole durata del processo fa saltare le collocazioni sistematiche, invece chiare e nette. Così come per le sovrapposizioni tra disciplina della prescrizione ed esercizio dei diritti di difesa: dev’essere consolidato consapevole convincimento che sia la Costituzione che la giurisprudenza della Corte delle leggi e della CEDU escludono alcuna configurabilità di un “diritto” del singolo imputato alla prescrizione del reato (altro è il diritto all’applicazione di norme processuali che possano condurre alla prescrizione del reato per cui si procede: ma per questo si è prima evidenziato che l’intervento sulla prescrizione non è in sé panacea di ogni disfunzione determinata dalla strumentalizzazione dell’esercizio dei poteri processuali riconosciuti alla parte e deve essere accompagnato da un’intelligente ed equilibrata rivisitazione del sistema delle impugnazioni).
La restituzione all’istituto della prescrizione sostanziale della natura che le è propria può aprire, nel breve periodo almeno, un problema obiettivo di individuazione del termine di durata massima del processo, che la collettività è disposta ad accettare.
Ma tale problema certamente troverebbe, nel medio e lungo periodo, soluzione fisiologica nella prassi giudiziaria, ove si intervenga, insieme ed efficacemente, sulla disciplina della prescrizione e sulla razionalizzazione dei riti e dei diversi gradi di giudizio.
La fisiologica autoregolamentazione del sistema è possibile, con discipline diverse che rendano chiaro per tutti che la fuga dal processo e l’interdizione volta ad ottenere la decisione in rito non pagano più, che per ogni processo interverrà una decisione sul merito, che quindi le scelte difensive debbono tornare a convergere solo sull’individuazione e sull’apprezzamento della migliore soluzione “nel merito” per sé, rispetto a una determinata imputazione.


In tale nuovo contesto, sarebbero sufficienti interventi di organizzazione (come l’indicazione, in sede di Governo autonomo o di legislazione, dei criteri di fissazione che assicurino la trattazione e la definizione di tutti i processi pendenti nei diversi gradi secondo criteri uniformi) o sul terreno (tuttavia sempre impervio quando entri in contatto con la dimensione quantitativa del carico di lavoro di ufficio e individuale) disciplinare, fermo comunque restando l’autonomo rilievo di applicazione della legge Pinto, in ogni sua ricaduta.

Autore
Carlo Citterio
Componente del CDC dell’ANM

Per quanto attiene all’attualità e alla costanza della pretesa punitiva dello Stato rileva solo la sentenza che determina il giudicato e non già l’esito delle singole tappe del percorso processuale Carlo Citterio