Girolamo Minervini
(Molfetta, 4 maggio 1919 - Roma, 18 marzo1980)
Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena
assassinato dalle Brigate Rosse
«Abbiamo giustiziato noi Girolamo
Minervini. Seguirà comunicato. Qui Brigate Rosse». Con queste poche
parole, inviate all'Ansa e al quotidiano "La Repubblica", il
commando delle Br della "colonna Romana" rivendica l'attentato
terroristico ai danni del magistrato nato a Molfetta, in Puglia,
nel 1919. Dalle indagini e dal processo risulterà che il piano era
pronto da tempo. I brigatisti, dopo aver pedinato Minervini per
diversi giorni, puntano al bus 99 su cui sale ogni mattina per
raggiungere il luogo di lavoro.
Sono le 8.30 del 18 marzo 1980;
dopo quattro fermate il mezzo giunge a quella di via Ruggero di
Lauria. La vettura rallenta, le portiere non sono ancora aperte. È
il momento dell'azione. Il terrorista con il compito di far fuoco
estrae una pistola silenziata, la rivolge contro il magistrato e
spara. I passeggeri urlano e fuggono verso le uscite; l'assassino
perde il controllo e spara tra la folla ferendone alcuni. Appena un
mese prima, il 18 febbraio 1980, alla Sapienza era stato ucciso
Vittorio Bachelet, il Vice Presidente del CSM.
Girolamo Minervini entra in
magistratura nel 1943. Dal 1947 al 1956, viene assegnato al
Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Istituti di
Prevenzione e Pena. Passa poi alla Procura generale della
Cassazione. Nel 1968 viene nominato magistrato segretario presso il
Consiglio Superiore della Magistratura. Nel 1973, dopo aver svolto
servizio per un breve periodo presso la Corte di Appello di Roma,
fa ritorno al Ministero della Giustizia con funzioni di capo della
segreteria della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e
Pena. È redattore della rivista "Rassegna studi penitenziari",
segretario della sezione di Criminologia del centro nazionale
prevenzione e difesa sociale, condirettore di "Giustizia e
Costituzione" Il 17 marzo, il giorno prima della morte, diviene
Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena.
Il Dott. Minervini sapeva che il
suo nome era stato trovato in una lista custodita in un covo
brigatista e sentiva che la sua vita era legata a un filo che
presto si sarebbe spezzato. Lucidamente ne aveva parlato a suo
figlio Mauro che, in una breve nota sul padre, ha detto: "Il 16
marzo 1980, di ritorno da Brescia, ove era stato per il trigesimo
della morte di mio nonno, mi venne a trovare. Meglio, venne a
trovare, nell'ordine, la nipote Sara e me. Mi confermò che ormai la
nomina a Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena
era certa e che, in tal caso, lo era quasi altrettanto l'esecuzione
della sentenza di morte da parte delle Br. Mi illustrò ove fosse la
polizza assicurativa e quali fossero le provvidenze per mia madre,
alla quale mi chiese di stare vicino. Per l'ultima volta discutemmo
della questione. Con toni molto pacati e tranquilli mi chiarì che
"in guerra un Generale non può rifiutare di andare in un posto dove
si muore" e che in fin dei conti non era lui tipo da morire
d'influenza. ( ...) A mia moglie diede affettuosamente sulla voce
quando saltò fuori un cenno alla pena capitale. Credo di averlo
mandato a quel paese". Il giorno successivo al colloquio con il
figlio, il Presidente del Consiglio Cossiga, confermerà la nomina
di Minervini a nuovo direttore degli istituti penitenziari. Già da
tempo, il questore di Roma aveva insistito per assegnargli una
scorta, ma Minervini aveva rifiutato: "E inutile, non intendo far
ammazzare tre o quattro ragazzi".
Il figlio Mauro ama ricordarlo
così: "Dotato di un humour vivacissimo amava scherzare, "sfottere"
ed "essere sfottuto". I suoi vecchi amici, e lui stesso, mi
raccontavano di scherzi da antologia. Delle tante ragazzate che,
fortunatamente, ho avuto modo di fare non mi ha mai rimproverato
che per dovere parentale. Era una di quelle persone abbastanza
serie da non aver bisogno di prendersi sul serio più del minimo
indispensabile. Era drasticamente interdetto a chiunque, salvo che
alla piccolissima nipote a puro titolo di sfottò, chiamarlo
Eccellenza; "giudice", diceva, è un termine che identifica una
funzione di così grande rilevanza da non essere sostituibile. Del
proprio ruolo era fierissimo; credo che tra i pochi veri dispiaceri
che gli ho inflitto, il più grande sia stato quello di essermi
ritirato dal concorso in Magistratura. Però fu contento quando si
accorse che in Banca, appena entrato, guadagnavo quasi quanto Lui,
che portava (in teoria) l'ermellino. In famiglia, lo vedevamo
poco... I suoi numerosi impegni, lo tenevano fuori casa 15 o 16 ore
al giorno. In compenso, non gli rendevano una lira. Quando morì
aveva una bella casa - di cooperativa, col mutuo ancora da pagare
per un paio di lustri - un milione in banca ed una wolksvagen degna
di uno studente fuori corso. Ed un patrimonio, dentro, che spero di
aver ereditato seppure in minima parte. La mattina del 18 marzo, in
autobus e senza scorta, andò a fare la sua parte, senza chiedersi
se l'avessero fatta anche gli altri. Sul volto, da morto, aveva
l'espressione serena di sempre.
(tratto dalla pubblicazione del
Csm "Nel loro segno").